Architettura costituzionale – di Solange Manfredi

CIR Costituzione crisi

Architettura costituzionale

di Solange Manfredi

 

Ci viene detto che la modifica della Costituzione è necessaria per superare la crisi. E’ così?

No, è falso.

A dirvelo non sono io, ma l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky:

“Le difficoltà in cui ci troviamo non derivano dalla Costituzione, ma dall’ignoranza, dal maltrattamento, dall’abuso, talora dalla violazione che di essa si sono fatti. Eppure lí si trova la risposta ai nostri maggiori problemi.

Il lavoro come diritto e fondamento della vita sociale, e non la rendita finanziaria e speculativa; l’uguaglianza di fronte alla legge e non i privilegi, per proteggere i deboli e combattere le mafie d’ogni natura; l’impegno a promuovere politiche di equità sociale e fiscale e non l’autorizzazione a gravare sui più deboli per risolvere i problemi dei più forti; la garanzia dei servizi sociali e non la volontà di ridurli o sopprimerli; la salute come diritto e non come privilegio; l’istruzione attraverso la scuola pubblica aperta a tutti e non i favoritismi alla scuola privata; la cultura, i beni culturali, la natura come patrimonio a disposizione di tutti, sottratti agli interessi politici e alla speculazione privata».

Eccola la verità.

La verità è che semplicemente applicando la Costituzione, quella Costituzione a cui hanno giurato fedeltà Presidenti, Ministri e Sindaci, si potrebbero risolvere i maggiori problemi odierni. Ma di questo noi non ne siamo consapevoli. Perché tutti, oggi, parlano di Costituzione, ma nessuno dei suoi contenuti o, quando ne parlano, li stravolgono, chi per ignoranza, chi in mala fede. E, dunque, parliamo dei contenuti della Costituzione, e vediamo quali problemi potrebbero essere risolti prendendone in esame anche solo pochi articoli. Sicuramente uno dei problemi più impellenti del nostro paese è quello della finanza speculativa. Non si investe più in economia reale, ma si gioca d’azzardo.

Oggi le banche non investono nell’economia reale, cioè in attività produttive, ma speculano, cioè giocano d’azzardo con il soldi dei risparmiatori. Se vincono, intascano la vincita; se perdono, chiedono agli Stati, e quindi ai cittadini, di coprire le loro perdite.

Oggi l’accumulo del debito pubblico è aggravato dal debito di banche. Debito che viene ripianato dagli interventi degli stati, cioè da noi cittadini. Le cifre sono enormi, secondo i dati di Bankitalia, a fine 2011, il 37% del PIL in Europa era stato usato per ripianare i debiti delle banche.

Come è stato possibile ciò? Grazie ad una scellerata legge del 1999, la Gramm-Bliley Act, che ha sciolto il vincolo posto, nel 1933, da Presidente americano Roosevelt con la legge denominata Glass-Steagall Act.

Questa legge, pensata da un italoamericano – Ferdinand Pecora, legale della commissione bancaria del Senato Usa al tempo della Grande Depressione – venne adottata dal governo Roosevelt per porre un freno alla speculazione finanziaria che aveva portato al tragico crollo della borsa del ’29, alla c.d. Grande depressione.

I fatti che avevano generato la Grande Depressione, infatti, erano legati anche (vedremo poi quali furono le altre cause) all’eccesso di attività speculativa che aveva la finanza sopra l’economia reale erodendo i risparmi dei correntisti. Come? Esattamente come avviene oggi, le banche giocavano d’azzardo con i soldi dei risparmiatori.

Per porre un freno a questa attività speculativa la legge prevedeva, quindi, una netta separazione tra banche d’affari e gli istituti di credito tradizionali.

Nel 1999 questa legge viene abolita e sostituita “Gramm-Bliley Act” che ricrea le condizioni che avevano portato alla Grande Depressione degli anni trenta del secolo scorso, cioè, non prevedendo più la netta separazione tra banche d’affari e istituti di credito permette alla banche di poter nuovamente giocare d’azzardo con i soldi dei risparmiatori.

Si riaprono, insomma, le porte, anche in campo finanziario, all’avidità, alla cupidigia, a quel liberismo sfrenato che fa vincere i più forti, non i migliori. Un liberismo senza regole, senza controlli, che giustifica e normalizza i comportamenti illeciti… Ed il risultato di tutto ciò è sempre una marcia verso l’inferno.

I nostri Padri costituenti, ricordando ancora bene cosa avesse creato la Grande Depressione, posero, quindi, nella nostra Carta fondamentale, delle precise tutele a che questa follia non si potesse più realizzare.

Cosa vuol dire questo? Vuol dire che la finanza speculativa è incostituzionale e, i suoi problemi, possono essere risolti applicando semplicemente 3 articoli della Costituzione, e precisamente, l’art. 1, 41 e 47. (come insegna Salvatore Settis, ex Rettore scuola normale di Pisa).

Vediamo come.
Articolo 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Articolo 41.L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. (Principio di utilità sociale dell’impresa)

Articolo 47. La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.

Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

Leggiamoli in quello che in giuridichese viene detto combinato disposto… che altro non vuol dire che, per comprendere a pieno i nostri diritti, dobbiamo leggere le norme insieme, perché le une si integrano con le altre.

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Art. 1.

L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Art. 41 (Principio di utilità sociale dell’impresa)

Cosa vuol dire che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro? Vuol dire che la Costituzione impone a tutti di lavorare (infatti la nostra Costituzione, all’art. 38, prevede che il mantenimento e l’assistenza sociale spetti al cittadino inabile al lavoro).

In ambito finanziario l’art. 1, letto insieme all’art. 41 (che dice che l’attività privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale), significa, in parole povere, che chi ha dei capitali ha anche l’obbligo di investirli nell’economia reale, in attività produttive, in modo che perseguano una utilità sociale, siano cioè in qualche modo utili a tutti, non solo giocarli d’azzardo, in borsa o con mezzi speculativi.

Sin dal primo articolo della nostra Costituzione, cioè, i nostri Padri costituenti, memori di quelle attività che avevano portato alla Grande Depressione, e che erano state la concausa della seconda guerra mondiale, vollero cioè porre un preciso limite alle attività speculative e, come vedremo poi, alle rendite c.d. parassitarie.

E chi è che deve controllare che questo avvenga?

Ce lo dice l’art. 47 della Costituzione: è lo Stato. È lo Stato che deve controllare e regolamentare l’attività bancaria. Uno Stato che non solo non controlla l’esercizio del credito, lasciando alle banche l’iniziativa, ma emette leggi che agevolino questa follia, viola l’art. 47 della Costituzione.

Basti pensare alla legge 130 del 1999 sulle c.d. cartolarizzazioni del credito.

Che cosa è la cartolarizzazione del credito? È la cessione di un debito/credito di un privato, o di una società, operata normalmente da una banca. Questa cessione avviene attraverso i titoli obbligazionari che sono collocati presso il pubblico. In sostanza con la cartolarizzazione il rischio di credito, ossia il rischio che il privato, o la società, non possano rientrare del credito ricevuto, viene trasferito dalla banca agli obbligazionisti.

La legge n. 130 del 1999, che ha legittimato questa prassi, contrasta con l’utilità sociale di cui all’art. 41 Cost. (in realtà contrasta con molti più articoli della Costituzione: con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3; con la stabilità economica di cui all’art. 4; con l’unità giuridica ed economica della Nazione di cui all’art. 120; ecc. ma, per non mettere troppa carne al fuoco e fare confusione, concentriamoci solo sulla violazione di questi articoli sulla Slide).

Abbiamo detto contrasta con l’utilità sociale di cui all’art. 41 e, ovviamente, contrasta con l’art. 1 della Costituzione. I capitali non investiti nell’economia reale, ma giocati d’azzardo, provocano l’instabilità economica che si riflette, ineluttabilmente, sul lavoro delle imprese e, quindi, sull’occupazione.

Detto in una parola, si tratta di una legge in pieno contrasto con i principi fondanti della nostra Costituzione, poiché essa pone come «valore» non la «ricchezza nazionale», non lo sviluppo della «persona umana», e quindi del «lavoro dell’uomo», ma il concetto capitalistico del «massimo profitto» individuale. (Paolo Maddalena)

Lo stesso discorso vale per i derivati, che altro non sono che un altro tipo di cartolarizzazione (si pensi che i derivati in circolazione al 2008 avevano un valore nominale di quasi 700 trilioni di dollari, circa dodici volte il Pil del mondo).

Pensate che la follia è arrivata sino al punto che, con la legge 112/2002 (Recante disposizioni in materia di […] cartolarizzazioni, valorizzazione del patrimonio e finanziamento delle infrastrutture), che ha istituito la Patrimonio Stato S.p.A., (poi soppressa con la legge 266/2005, con conseguente trasferimento delle sue funzioni alla Cassa depositi e prestiti) si era previsto che i soldi derivanti dalla vendita degli immobili facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile dello Stato, o facenti parte del demanio, cioè nostri, beni che appartenevano a tutti noi come cittadini, venissero cartolarizzati, cioè trasformati in titoli di credito, in obbligazioni, e messi sul mercato, quindi soggetti alle variazioni di borsa.  (Salvatore Settis).  Cioè i soldi ricavati dalla venduta dei nostri beni, invece di investirli in attività produttive, si giocano d’azzardo, si fa attività speculativa.

Ma, attenzione… faccio una piccola digressione, che vendere il patrimonio di una comunità sia una mostruosità si sa da secoli.

Quando Cicerone, nel 70 a.C., deve mostrare ai giudici la mostruosità della corruzione di Verre, egli racconta come, dopo aver spogliato le città siciliane del loro patrimonio artistico, il governatore ne avesse anche falsificato gli atti pubblici, facendo risultare che quelle opere gli sarebbero state vendute. Ed era questo il crimine più odioso: «Ritengono infatti che l’infamia più grande consista nel fatto che gli archivi pubblici possano ricordare che una città, per amor di guadagno (e di un piccolo guadagno!), abbia messo in vendita e alienato ciò che aveva ricevuto dalle generazioni precedenti».

Per i siciliani del I secolo a.C., dunque, non c’era vergogna più grande che vendere, per denaro, il proprio patrimonio storico e artistico, che era invece un inviolabile alimento della vita civile, da custodire e da tramandare alle future generazioni. (Tommaso Montanari)

Noi, invece, non solo lo vendiamo, ma il ricavato lo giochiamo d’azzardo.

Anche in questo caso, quale utilità sociale vi può essere nel vendere i nostri beni per giocarli in borsa? Anche qui la violazione degli art. 1 e 41 della Costituzione è evidente.

In tutti questi casi ora ricordati, ci troviamo davanti ad una attività speculativa che non può assolutamente essere ritenuta meritevole di tutela giuridica.

Infatti, da un punto di vista giuridico, non v’è alcun dubbio che le «negoziazioni» poste in essere dalla speculazione finanziaria, essendo chiaramente in contrasto con l’utilità sociale, e producendo danni alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, di cui parla il citato art. 41 della Costituzione, hanno una «causa illecita» e pertanto sono affetti da «nullità assoluta», cioè come non fossero mai stati stipulati. Nullità assoluta che può esser fatta valere da chiunque vi abbia interesse senza limiti di tempo. (Paolo Maddalena)

Ma guadate che, per quanto riguarda l’attività economica, taluni limiti erano già previsti nel codice civile del 1942, e venivano individuati soprattutto nelle disposizioni degli articoli 1322, 1343 e 1418 c.c.

Nell’art. 1322 sono descritti i limiti al contenuto del contratto, il quale è liberamente determinato dalle parti, ma non può superare i «limiti imposti dalla legge» e comunque deve «realizzare interessi meritevoli di tutela».

Nell’articolo 1343 si parla della causa del contratto e si precisa che «la causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume».

Ma, ancora, lo precisano in modo inequivocabile l’art. 1418 del codice civile, secondo il quale «l’illiceità della causa» produce la «nullità del contratto», l’art. 1421 del codice civile, secondo il quale «la nullità può esser fatta valere da chiunque vi abbia interesse» e l’art. 1422 del codice civile, secondo il quale «l’azione per far dichiarare la nullità non è soggetta a prescrizione».

La conseguenza, di non poco conto, è che anche i ben noti «giudizi dei mercati» non hanno alcun valore giuridico e che, di conseguenza, sono privi di significato anche gli spread di cui tanto si parla.

Tutte queste negoziazioni sono, cioè, nulle.

Per fermare questo massacro non serve a niente che i nostri governanti facciano incontri di vertice, dichiarazioni mirabolanti sui giornali o altro, sarebbe sufficiente attuassero la Costituzione.

Ed invece i nostri governanti, che lo ricordiamo hanno giurato sulla Costituzione, che fanno? Si precipitano a soddisfare, cioè pagare, il presunto «diritto di credito» degli speculatori finanziari, senza prima curarsi, nell’interesse della collettività, di verificare se si tratta di diritti di crediti effettivi e giuridicamente vincolanti.

La Costituzione è chiara. Lo sviluppo dell’Italia deve essere fondato sul lavoro, il risparmio e l’investimento nelle attività produttive. Non sulla speculazione finanziaria, non sulla scommessa. Tutto ciò è incostituzionale. Non ha tutela giuridica. I debiti così contratti non esistono e, dunque, non devono essere pagati… se solo si applicasse il diritto.

Se solo si applicasse il diritto il problema dell’enorme debito che ci dicono gravi sull’Italia, e per cui si tagliano i servizi essenziali ai cittadini, non esisterebbe. Meglio. Secondo il diritto questo problema proprio non c’è, perché queste negoziazioni sono nulle, cioè mai venute ad esistenza.

Ma, lasciamo ora la finanza, e passiamo ad un altro problema che riguarda il nostro paese, ossia la proprietà.

Infatti, non è solo l’accentramento della ricchezza in denaro il problema che attanaglia il nostro paese ma, come conseguenza di questa, anche l’accentramento dei beni in mano a pochi in danno dei più.

È sotto gli occhi di tutti come l’avidità individuale abbia spinto all’accaparramento dei beni, alla sopraffazione dei deboli, alla diseguaglianza, alla miseria generalizzata.

La cupidigia umana, ha provocato un progressivo impoverimento di molti, e un altrettanto progressivo arricchimento di pochi. (Sono quelli che Luís Sepúlveda, grande scrittore cileno, ha definito «quel miserabile 1% dell’umanità che si è appropriato del 99% della ricchezza del pianeta, e che viene eufemisticamente chiamato “Mercato”»). (Salvatore Settis)

E guardate che il problema dell’accentramento della ricchezza in mano a pochi, come rischio per l’esistenza stessa di una società democratica, non è nuovo.

Era già stato evidenziato da Platone nel IV secolo a.C., che aveva collegato la limitazione degli eccessi di ricchezza e la solidità del vincolo politico tra i cittadini; o da Aristotele, che aveva precisato che è più la ricchezza dei governanti, che il loro numero, a segnare il confine tra oligarchia e democrazia. (Paolo Maddalena)

Ed, invece, negli ultimi anni la cupidigia di molti ha portato, ad esempio, al rinascere dei latifondo a scapito della piccola proprietà privata.

Con la nascita del latifondo i proprietari terrieri acquistato centinaia e centinaia di ettari di terra che sfruttano con monoculture intensive, inondandole di veleni che inquinano le acque. (Proprio recentemente, a maggio, si è aperto a Viterbo un processo per l’inquinamento del lago di Vico che vede imputati sue sindaci per disastro colposo, omissione in atti d’ufficio e somministrazione di acqua nociva. Secondo la Procura, le alte concentrazioni di fosforo presenti nel lago sono dovute a concimi e diserbanti: “Vere e proprie bombe lanciate sul lago”, dai proprietari dei terreni nella zona. Gli ex sindaci rispondono in veste di prima autorità sanitaria a livello locale per le mancate contromisure atte a preservare la salute del lago).

E’ legittimo tutto questo? NO.

Ci si può difendere da tutto questo? Certo! Come? Ancora una volta semplicemente applicando la Costituzione, come insegna Paolo Maddalena (Presidente emerito della Corte Costituzionale)

Vediamo con quali articoli.

Articolo 42. La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.

La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità. Principio di utilità sociale della proprietà. (Principio di funzione sociale della proprietà).

Articolo 44: Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà.

La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane.

In questi articoli, rivolti alla funzione sociale della proprietà ed alla proprietà terriera, appare chiaro come il Costituente veda nella piccola e media proprietà la chiave di volta dello sviluppo agricolo, ritenendo, giustamente, che il latifondo e la grande proprietà non garantiscono affatto la migliore coltivazione dei terreni.

C’è, in questo articolo, anche il richiamo implicito al fatto che la distribuzione tra il maggior numero possibile di coltivatori di piccoli e medi appezzamenti di terreno, non inferiori, comunque, alla minima unità produttiva, costituisce di per sé il perseguimento di una funzione sociale: quella di distribuire la ricchezza tra più fruitori, fermo restando, anche per questi ultimi, l’obbligo di concorrere, per quanto possibile, alla ricchezza e al benessere nazionale, attraverso il loro costante lavoro.

Questo perché da sempre è ben noto che motore dello sviluppo economico non è affatto l’accentramento, ma la redistribuzione della ricchezza, la quale consente la continuità della domanda, che sollecita l’offerta, la quale, a sua volta, produce beni reali e sicuro assorbimento delle forze lavorative esistenti. (Paolo Maddalena)

Attenzione, in queste norme non c’è una demonizzazione del latifondo, a patto, però, che persegua la funzione sociale.

Il problema, oggi, è che le terre sono acquistate dai latifondisti che le sfruttano con monoculture intensive, quasi completamente meccanizzate, inondando i terreni con pesticidi e diserbanti, e così inquinando l’ambiente.

Facciamo un altro esempio.

Un altro problema del nostro paese è l’abbandono delle terre.

Attenzione, perché la difesa dei suoli agricoli è un tema di grande rilevanza. Difendere i suoli agricoli vuol dire, infatti, tutelare il paesaggio (art. 9 Cost), vuol dire proteggere e promuovere la produzione di cibo di qualità e, quindi, vuol dire difendere la salute (art. 32 Cost.). Infatti nulla difende il paesaggio e l’ambiente, e quindi la salute, quanto un’agricoltura di qualità. Ma di più, la promozione dell’agricoltura di qualità ha un enorme potenziale economico, proprio nel rispetto del diritto al lavoro (art. 4 Cost.). (Salvatore Settis)

Dicevamo dell’abbandono delle terre. Ma la proprietà privata è riconosciuta e tutelata in quanto riesce ad assicurare dei beni stessi la funzione sociale.

Dunque, un terreno agricolo non può restare abbandonato, cioè avulso dal suo fine fondamentale di perseguire la sua funzione sociale senza limiti di tempo.(Paolo Maddalena)

Se la proprietà non svolge la sua funzione sociale, la legge «non riconosce né garantisce» il diritto di proprietà privata e, l’ex proprietario, non ha più alcuna possibilità giuridica di farlo valere.

Ovviamente, anche qui, non stiamo parlando della piccola proprietà privata che esaurisce la sua funzione nel soddisfacimento di bisogni individuali del singolo. Lo sfavore della costituzione, come abbiano visto, è per il latifondo che persegue un fine egoistico e non una funzione sociale, o per le altre forme di accentramento della ricchezza e, al contrario, favorisce la piccola e media proprietà, costituita dalle unità produttive, dalla prima abitazione, dalla proprietà coltivatrice diretta. Quindi, stiamo parlando qui, della «grande proprietà privata» che può, e deve, essere produttiva di molteplici «utilità sociali».

 

Come risolvere questo problema? anche qui applicando la Costituzione, ma anche applicando l’art. 838 del vigente codice civile, secondo il quale:

«Quando il proprietario abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio di beni che interessano la produzione nazionale, in modo da nuocere gravemente alle esigenze della produzione stessa, può farsi luogo all’espropriazione dei beni da parte dell’autorità amministrativa, premesso il pagamento di una giusta indennità. La stessa disposizione si applica se il deperimento dei beni ha per effetto di nuocere gravemente al decoro delle città, o alle ragioni dell’arte, della storia o della sanità pubblica».

Facciamo un esempio. Nel caso di terreni abbandonati il Sindaco del Comune interessato può diffidare il proprietario a riattivare, entro un congruo termine, la funzione sociale del suo bene. Se il termine scade inutilmente, non ci sono più ostacoli alla dichiarazione di cessazione del diritto di proprietà privata, e alla conseguente acquisizione del bene stesso al patrimonio comunale.

 

Il problema dei terreni abbandonati è stato, ad esempio, affrontato dalla Regione Toscana con il Regolamento approvato il 29 ottobre 2013 per il recupero dei terreni incolti e abbandonati. Cosa prevede questo Regolamento? Che i terreni incolti possano essere assegnati agli interessati che presentano uno specifico piano di sviluppo. Al proprietario del fondo spetta un canone, determinato dall’Ente Terre di Toscana. (Paolo Maddalena)

In altri termini: non lo vuoi o non lo puoi coltivare? Nessun problema, lo assegno a chi vuole coltivarlo e determino io il canone che ti spetta. La soluzione della Regione Toscana è stata soft, poteva, costituzionalmente, acquisire i terreni non coltivati nel patrimonio del Comune. Comunque qualcosa ha fatto. E, secondo me, ha agito bene.

Altro problema: la chiusura o la delocalizzazione degli stabilimenti industriali, ovvero l’immobilizzo di grandi costruzioni edili. (Paolo Maddalena)

Anche queste situazioni non possono avere tutela giuridica. Il motivo sempre lo stesso. Il mancato perseguimento della «funzione sociale» deve necessariamente avere un effetto risolutivo della tutela giuridica accordata.

Facciamo, anche qui, un esempio.

Il proprietario di un’industria che, per ottenere maggiori profitti, licenzia gli operai, trasferisce la sua attività in un altro Stato e abbandona gli immobili destinati all’attività industriale, non può certo pretendere, in un secondo momento, un mutamento della destinazione urbanistica di quella zona per potervi costruire, ad esempio, un albergo, in nome del suo diritto di proprietà sull’immobile di cui si discute.

 

Si deve infatti ritenere che l’aver agito, non per perseguire il fine della «funzione sociale» del bene, ma per un fine utilitaristico individuale, compiendo un’attività platealmente antisociale, come quella del licenziamento degli operai, cui abbia fatto seguito l’abbandono dell’immobile stesso abbia reciso all’origine il diritto di proprietà su detto immobile. (Paolo Maddalena)

Insomma, la distruzione del nostro territorio, l’accaparramento della ricchezza da parte di pochi, può essere evitata facendo valere l’inesistenza di diritti che perseguono una funzione antisociale (principio della funzione sociale della proprietà privata), o la nullità assoluta di contratti con «causa illecita», aventi anch’essi un chiaro contenuto antisociale (principio dell’utilità sociale dell’attività privata).

 

Capiti ora questi principi cardine, prendiamo in esame la legge 148/2011, legge che ha posto nelle mani degli speculatori ambientali e finanziari un’arma invincibile: quella di agire nel proprio interesse individuale, anche contro l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana, consentendo loro di svendere industrie strategiche, chiudere o delocalizzare imprese, al solo fine di conseguire maggiori profitti, producendo impunemente licenziamenti, disoccupazione, recessione generale della nostra economia. (Paolo Maddalena)

Nella legge, infatti, si legge: «sono soppresse le disposizioni normative statali incompatibili con il principio per il quale l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge».

È di palmare evidenza che questa legge è incostituzionale, perché abbiamo visto che l’attività e la proprietà privata non sono diritti naturali fondamentali, che precedono l’ordinamento giuridico, ma sono diritti esistono in quanto la legge li riconosce e garantisce, subordinandoli però allo scopo di assicurarne la «l’utilità sociale e la funzione sociale».

In altri termini: I diritti inviolabili di tutti sono superiori al diritto del privato, del singolo.

Invece, noi, paradossalmente, riteniamo il diritto del privato, del singolo, «prevalente» sul «diritto inviolabile» di tutti.

In tema di diritti, insomma, siamo tornati indietro di secoli.

Possiamo citare ancora una volta Platone. Secondo Platone, la felicità (eudaimonia) si consegue solo nel buon governo della comunità civile (polis), che dev’essere considerata nella sua interezza; se invece i privati proprietari diventano «padroni ostili, anziché alleati degli altri cittadini, trascineranno nella rovina se stessi e tutta la città».

O, ancora, la costituzione apostolica Quae publice utilia et decora di Gregorio XIII (1574), che sottopose a rigoroso controllo l’attività edilizia privata proclamando, sin dalle prime righe, l’assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sull’avidità (cupiditates) e sui profitti (commoda) dei privati. (Salvatore Settis)

O ancora Roosevelt, che in un suo discorso al Congresso, del 29 aprile 1938, affermò: «Eventi infelici accaduti in altri paesi ci hanno insegnato da capo due semplici verità in merito alla libertà di un popolo democratico. La prima verità è che la libertà di una democrazia non è salda se il popolo tollera la crescita di un potere privato al punto che esso diventa più forte dello stesso Stato democratico […]. La seconda verità è che la libertà di una democrazia non è salda se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un modello di vita accettabile».

Ed infatti la Grande Depressione fu causata da un lato, come abbiamo visto, dall’attività speculativa delle banche e, dall’altro, dalla cupidigia dei privati che si accaparravano i beni. Esattamente quello che sta succedendo oggi. Ecco perché la nostra Costituzione prevede specifiche tutele a queste due piaghe dell’umanità: l’attività speculativa e la rendita parassitaria. Piaghe dell’umanità perché, come si è visto, è dai tempi di Platone che si sa che queste attività portano solo distruzione e morte. Ma noi abbiamo la memoria corta.

E qui sfatiamo un’altra favola che gira, ossia che le norme comunitarie, anche se contrastano con la Costituzione, debbano prevalere. Non è così: l’Europa non è un impero esterno che ha conquistato gli Stati membri e, dunque, può imporre  regole contrarie all’ordinamento di ciascun Paese. Le norme europee non sono sovraordinate alla Costituzione, che prevede «limitazioni di sovranità» solo se «necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (art. 11). L’art. 117 (dopo la riforma 2001 del Titolo V) parla sí di «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario», ma non li considera sovraordinati ai diritti fondamentali.

Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea recita: «i Trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri» (art. 345).

In altri termini, le norme internazionali ed europee sono applicabili, in ogni singolo Stato, solo se compatibili con la sua Costituzione. Le sentenze in questo senso sono numerosissime da decenni. Ne citiamo due per tutte.

Corte Costituzionale:

Sentenza 1146/1988: “le regole comunitarie… non possono stravolgere le basi dell’ordinamento italiano”.

Sentenza n. 238/2014: “non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’articolo 10, primo comma della Costituzione» (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) e operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007).

Ma tutte le Corti, che sia di Cassazione, che sia Costituzionale, che sia consiglio di Stato, sono unanimi nel dire che i diritti fondamentali non si possono toccare. Nessuna legge, né nazionale, né internazionale, né comunitaria può intaccare i diritti fondamentali stabiliti in Costituzione.

Ed, invece, il nostro Legislatore – che oramai abbiamo visto essere il Governo, e non più il Parlamento – quotidianamente emana leggi che violano questi diritti. E le Corti continuano ad emettere sentenze che ne dichiarano l’incostituzionalità.

E che dire di quell’abominio dell’art. 81 della nostra Costituzione sul pareggio di bilancio?

Iniziamo subito con il dire che l’art. 81 non fa parte della nostra Costituzione, nel senso che è estraneo alla sua logica interna e all’idea di società condivisa dai nostri Costituenti. Si pone, cioè, fuori da quel progetto di tutela e sviluppo della Nazione deciso dai nostri padri costituenti.

Una follia, quella del pareggio di bilancio, denunciata quasi quotidianamente perché è: «abnorme e inaccettabile che il principio del pareggio di bilancio debba prevalere su ogni diritto dei cittadini costituzionalmente garantito» ci dice l’ex presidente della Corte dei Conti, Manin Carabba.

Perché “i diritti di contenuto economico e finanziario, posti a salvaguardia dell’integrità dei bilanci pubblici, non possono incidere sui diritti fondamentali della persona”.

Questo, in sintesi, ci dicono numerosissime sentenze che negli ultimi anni hanno attaccato il pareggio di bilancio e le leggi che ne danno attuazione.

Cioè, per entrare nel concreto e parlare di un problema che ci riguarda da vicino: le leggi che impongono dei tagli assurdi alla sanità, facendo leva sul pareggio di bilancio, sono incostituzionali perché portano ad una inaccettabile compressione di un diritto fondamentale dei cittadini. Basta leggere l’art. 32 della Costituzione che si conclude con l’espressione: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Qui il riferimento diretto alla «persona» implica, ovviamente, il riferimento alla «dignità della persona», diritto inviolabile.

Che la follia del pareggio di bilancio non possa incidere sui diritti fondamentali dei cittadini è ribadito in continuazione.Potrei citarvi sentenze che dicono questo per ore, ma qui basti citare una sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’incostituzionalità di una legge di cui, più o meno, almeno per nome, abbiamo sentito parlare tutti: la c.d. Salva Italia.

Nella sentenza n. 70/2015 la Corte Costituzionale scrive: «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria»; ed ancora: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Qui si parla di retribuzione (art. 36 Cost), di pensioni (art. 38 Cost). Non puoi intaccare questi diritti costituzionalmente garantiti con motivazioni di pareggio di bilancio. È incostituzionale.

Ed, invece, ora, siamo presi dalla follia di calcolare costi-benefici per tutto; di dare un prezzo a tutto… che spesso, poi, proprio perché stabilito da questo mostro senza testa che è il Mercato, è un prezzo infimo ed indegno.

Non ci basta, infatti, ammirare le Dolomiti o l’Etna, vogliamo sapere quanto valgono in moneta e quanto producono.

Ai musei, alle cattedrali, alle città, alle foreste, alla forza lavoro di una fabbrica, alle spiagge, ai bambini di una scuola, agli ospedali, alle specie animali appendiamo diligenti cartellini del prezzo: così, infatti, a quel che pare, si calcola il rapporto costi-benefici; o, per dirla più chiaramente, così si tiene pronto l’invincibile argomento per chiudere o privatizzare ospedali, scuole e musei, per licenziare operai, vendere palazzi, cartolarizzare montagne, devastare l’ambiente e consegnare ai palazzinari i centri storici.

Questi contabili del mercato, però, «non assegnano un costo alle risorse naturali, non segnano tra le perdite i suoli agricoli divenuti improduttivi, la distruzione di specie animali e vegetali, le campagne ed i mari invasi da rifiuti tossici, l’inquinamento dell’aria e delle acque, i danni irreversibili alla salute dei lavoratori, che ne riducono la produttività e la durata della vita, ed omettono di considerare come valore distrutto, le risorse».

A tutto questo no, non si assegna un valore.

Una follia, un vero e proprio genocidio finanziario, che produce solo distruzione e morte.

Attenzione, perché queste sono tutte cose già accadute e note. Torniamo alle cause della Grande Depressione del secolo scorso di cui abbiamo già parlato. Anche in quel periodo i privati, senza controllo, gli speculatori, prezzavano tutto, perché affetti da quello che, un grande economista dell’epoca, Keynes, definì “incubo contabile”.

Leggiamo le parole di Keynes: “la regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci dànno alcun dividendo”.

Questa follia, questo incubo contabile, portò alla disperazione ed alla fame un intero continente, l’Europa.

Disperazione e fame che vennero abilmente sfruttate da fanatici irresponsabili per giungere al potere. Fanatici irresponsabili che, fate attenzione, in ogni epoca: È sempre dal caos che traggono la propria legittimità, e tutti fanno leva sulle stesse corde psico-affettive (paura-risentimenti-frustrazione).

Tutto ciò portò l’Europa alla seconda guerra mondiale, finale tragico assolutamente previsto da Keynes, che scrisse in ordine alla situazione politica del tempo: “Vi sono altri argomenti, che anche il più ottuso non può ignorare, contro una politica che tenda ad allargare e ad incoraggiare ancor più la rovina economica di grandi paesi… Se noi miriamo deliberatamente all’impoverimento dell’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non tarderà”.

E la vendetta arrivò, e fu tragica.

Ecco perché i nostri Padri costituenti, memori di ciò, hanno posto limiti precisi al profitto individuale ed alla rendita parassitaria. Per impedire che le cause che avevano trascinato l’Europa nell’inferno non si potessero più ricreare.

Ma noi, ripeto, abbiamo la memoria corta, e l’irresponsabilità pare farla da padroni nel nostro tempo.

Abbiamo visto come le Corti italiane stiano cercando di porre un freno a questo “incubo contabile” di cui sembrano essere affetti i nostri governanti, e che massacra i nostri diritti fondamentali, una situazione così tragica da essere stata definita dallo stesso Presidente della BCE, Mario Draghi, una “macelleria sociale”.

E davanti a questo freno della magistratura i nostri governanti che fanno?

Ve lo accenno, per farvi capire non solo l’arroganza, ma anche l’assoluta irresponsabilità da cui sono affetti i nostri governanti.

Il 9 giugno 2015, 24 senatori del PD hanno presentato un disegno di legge «in materia di istruttoria e trasparenza dei giudizi di legittimità costituzionale» (in atti senato n. 1952).

L’intento di questo disegno di legge è di limitare i poteri della Corte Costituzionale. Una follia anche solo pensarlo. Comunque, andiamo avanti.

Che cosa prevede questo disegno di legge?

Visto che a detta di questi senatori: “tutto il sistema istituzionale deve essere vincolato al rispetto formale e sostanziale dei vincoli derivanti dall’articolo 81 vigente, ossia il pareggio di bilancio, questi vincoli non possono essere ignorati dalle varie Corti, neanche dalla Corte Costituzionale. Perciò le varie corti, anche la Corte costituzionale, possono continuare a emettere sentenze ma, se e come attuarle, spetterà al Governo”.

Una follia. Cioè, con questa legge, il Governo – che come abbiamo visto, in maniera assolutamente incostituzionale è quello che scrive le leggi, non è più il Parlamento – si vuol porre al di sopra anche della Corte Costituzionale.

E’ un po’ come se un imputato in un processo, che so, Totò Riina, dicesse al giudice: “faccia pure il suo processo poi, quando emette la sentenza, decido io quando e come applicarla, ossia decido io se andare in galera o no”.

Insomma, secondo questa proposta di legge, la massima magistratura del Paese, la Corte Costituzionale, deve essere sottomessa, di fatto, al potere esecutivo, che avrà licenza di posporre e limitare l’efficacia delle sue sentenze.

Perché per i nostri governanti i diritti fondamentali delle persone (come la salute, il lavoro, la scuola, il territorio, ecc.) sono considerati ostacoli da superare, e non obiettivi da raggiungere.

Una follia, certo, ma una follia lucida e pericolosissima perché, se questa legge passa, il legislatore, che oramai abbiamo visto è il Governo, potrà continuare indisturbato a produrre leggi che violano i diritti fondamentali ben sapendo, sin dal principio, che, comunque, anche nell’ipotesi di una pronuncia sfavorevole della Corte, la legge potrà continuare a valere, potranno, cioè, continuare a privarci dei nostri diritti fondamentali.

Detto in altri termini: Non avremmo più alcuna tutela.

Una follia davvero, un’arroganza che non conosce più limiti. Ma attenzione perché è Troppo semplice è sentirsi nel giusto. Come ci insegnano gli antichi greci, gli dèi quando vogliono annientare un uomo, cominciano a fargli perdere la misura.

Ma torniamo ai problemi del nostro Paese.

Altro problema che attanaglia il nostro paese è la cessione ai privati di servizi pubblici essenziali (acqua, elettricità, trasporti, ecc.). Le conseguenze di queste privatizzazioni le conosciamo tutti, aumento delle tariffe senza miglioramento dei servizi.

Bene. Leggiamo l’art. 43 della Costituzione che recita:

Articolo 43. A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.

Come ci ricorda Paolo Maddalena, Presidente emerito della Corte Costituzionale, questo articolo prescrive la nazionalizzazione di imprese o intere categorie di imprese, «che si riferiscano a servizi pubblici essenziali, o a fonti di energia, o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale», non la privatizzazione.

Anche qui parliamo di un problema che ci tocca da vicino, l’acqua.

A giugno la Regione Lazio si è attivata per cercare un gestore privato a cui affidare la gestione dell’acqua. E questo nonostante il referendum del 2011 in cui gli italiani hanno votato per l’acqua pubblica.

Ma abbiamo visto che l’arroganza del Governo non conosce i limiti dei diritti e della Costituzione. E così, a soli 6 mesi dal referendum, il Governo ha emanato una nuova legge tesa ad aggirare il voto degli italiani. Sto parlando della già citata legge 148/2011 con la quale si prevedeva nuovamente l’affidamento al Privato del servizio idrico. Su questa vergogna è intervenuta la pronuncia di incostituzionalità della Corte Costituzionale. Nella sentenza 199/2012 la Corte costituzionale ribadisce che la volontà popolare, espressa con referendum, ai sensi dell’art. 75 della Costituzione, non può assolutamente essere posta nel nulla da una legge successiva.

Ed a fronte di questa chiarissima sentenza della Corte Costituzionale il Governo che fa? Emana il Decreto Madia, una nuova legge tesa, ancora una volta, a porre nel nulla l’esito del referendum.

Lo diciamo subito, il decreto Madia presenta numerosi profili di incostituzionalità; per quanto concerne la gestione del servizio idrico i profili di incostituzionalità sono per violazione dell’art. 43 e dell’art. 75 della Costituzione.

Ma è proprio l’idea di privatizzare i servizi pubblici essenziali e i beni pubblici che è logicamente sbagliata e insostenibile, perché privatizzare significa il trasferimento della ricchezza dalle mani di tutti alle mani di pochi. E privatizzare le reti strategiche di un paese è una follia ancora più grande perché chi ha in mano le reti ha in mano il potere, un potere superiore ai Governi, ai Parlamenti, a qualsiasi cosa. (Paolo Maddalena)

Avendo in mano le reti dell’acqua, dell’energia, del trasporto si può mettere in ginocchio un paese nel giro di pochi giorni. Dei privati, delle multinazionali, possono mettere in ginocchio un paese in pochi giorni a dispetto di tutto e di tutti. E’ una follia. Chiamiamola con il suo nome.

Una follia che i nostri Padri costituenti hanno voluto evitare ponendo chiare norme costituzionali a difesa dell’utilità di tutti contro la cupidigia di pochi. E applichiamola questa Costituzione, non facciamocela strappare, stravolgere. Perché la «strategia costituzionale» di sviluppo e tutela del nostro territorio è perfetta: Nazionalizzazione delle fonti di energia e dei servizi pubblici essenziali da un lato, e pieno impiego delle risorse naturali e umane dall’altro lato, per raggiungere il benessere di tutti. (Paolo Maddalena)

E che dire dell’attacco al territorio, all’ambiente ed al paesaggio che viene fatto grazie alle attività speculative? Perché è qui che si accaniscono le peggiori cupidigie. Distruggono ambiente, paesaggio, territorio e, conseguentemente salute, con trivelle, inceneritori, impianti geotermici, ecc. E noi della zona lo sappiamo bene.

Anche qui, come insegna Paolo Maddalena, per difenderci, basta applicare l’art. 9. della Costituzione con la conseguenza che tutti conosciamo ormai, la nullità assoluta di tutti i contratti.

Una piccola ma importante annotazione. Noi siamo stati il primo paese al mondo a porre la tutela del territorio e del patrimonio artistico culturale tra i diritti fondamentali.

E sapete perché? L’art. 9 della nostra Costituzione risponde ad una invocazione del 1519 di Raffaello.

Nel 1519 Raffaello e Baldassarre Castiglione offrirono al Papa i risultati dei rilievi dell’artista sulle antichità di Roma, e li accompagnarono con una lettera che contiene un passaggio capitale della storia della tutela:

Essendo io stato assai studioso di queste antiquità e avendo posto non picciola cura in cercarle minutamente e misurarle con diligenza, e, leggendo i buoni autori, confrontare l’opere con le scritture, penso di aver conseguito qualche notizia dell’architettura antica.

Il che in un punto mi dà grandissimo piacere, per la cognizione di cosa tanto eccellente, e grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavere di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato.

Ma perché ci doleremo noi de’ Goti, Vandali e d’altri tali perfidi nemici, se quelli li quali come padri e tutori dovevano difender queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno lungamente atteso a distruggerle? Quanti Pontefici, hanno atteso a ruinare templi antichi, statue, archi e altri edifici gloriosi!

Non deve adunque, Padre Santissimo, essere tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo aver cura che quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della fama italiane, per testimonio del valore e della virtú di quegli animi divini, che pur talor con la loro memoria eccitano alla virtú gli spiriti che oggidí sono tra noi, non sia estirpato, e guasto dalli maligni e ignoranti.

In tutta la letteratura artistica italiana non esiste, forse, un testo altrettanto alto, e altrettanto carico di futuro.

Il cadavere, a cui (con una metafora atrocemente attuale) Raffaello paragona il patrimonio, è il cadavere della «patria». E quella patria a cui fa riferimento Raffaello, già nel 1500, non è la Roma dei papi, la Firenze culla dell’arte rinata, la Urbino di Raffaello, no, è l’Italia: «madre della gloria e della famaitaliane». E le pubbliche autorità devono essere invitate, ed oggi con l’art. 9 obbligate, a curarsi del patrimonio: «non deve adunque […] essere tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità…».

Qui vi è già tutta la consapevolezza dell’importanza e della necessità di tutelare l’immenso patrimonio italiano. Principi che i nostri Padri costituenti hanno fissato nell’art. 9 della Costituzione. (Tommaso Montanari)

Pensate alla grandezza di tutto ciò.

Ed, invece, noi oggi non solo non tuteliamo il nostro territorio e patrimonio storico e culturale, ma lo massacriamo credendo alla menzogna che la rinascita del nostro paese debba passare attraverso queste attività speculative (trivellazioni, impianti geotermici, inceneritori, ecc..), o attraverso la continua cementificazione del nostro territorio.

Non è così. Questa è la morte del paese, non la sua rinascita.

Se solo ci dedicassimo a risanare quanto ci è rimasto del nostro territorio avremmo piena occupazione. Basta impiegare le aziende e i suoi lavoratori, invece che per costruire cattedrali nel deserto, per porre rimedio al dissesto idrogeologico del nostro territorio; per ristrutturare l’esistente; per piantumare le zone disboscate; per disinquinare terre, fiumi, laghi, corsi d’acqua che, grazie alla connivenza di chi ci governa, sono diventati fogne a cielo aperto, con conseguenze nefaste sull’ambiente e sulla salute.

Guardate che, anche qui, siamo tornati indietro di secoli.

Nel più originale dei trattati attribuiti a Ippocrate, Arie acque luoghi (fine del V secolo a. C.), era già perfettamente chiaro il nesso inevitabile fra la malattia e l’ambiente che può provocarla; perciò le patologie erano distinte fra “comuni” a tutti gli uomini e “locali” (epichoria), cioè legate a infelici condizioni ambientali di singoli luoghi.

Fu questa una preoccupazione costante della medicina greca, che presto si tradusse nelle forme del diritto: un decreto di Atene del 430 a. C. circa vietava «di mettere i pellami a imputridire nel fiume Ilisso a monte del tempio di Eracle, di praticare in quell’area la concia delle pelli e di gettarne gli scarti nel fiume». Con questo decreto, in anni non lontani dalla famosa peste di Atene, la polis «obbliga i privati a trasferire i propri laboratori lontano dall’abitato» a proprie spese, onde non danneggiare la salute dei cittadini.

Nello stesso spirito, quasi un secolo dopo, Platone avrebbe scritto che «l’acqua si inquina facilmente; perciò è necessario proteggerla per legge. E la legge deve punire chiunque corrompa l’acqua sapendo di farlo, condannandolo a pagare un’ammenda e a ripulire l’acqua a proprie spese».

Noi, oggi, non solo riusciamo ad emanare leggi con cui vengono autorizzate attività estremamente pericolose ed inquinanti per l’ambiente, a cui diamo anche rilavanti incentivi, ma esoneriamo le aziende dal risarcire i danni causati dalla loro attività alle persone ed all’ambiente.

Ed usciamo anche da un’altra inesattezza, che ci viene spesso detta per giustificare l’inattività del Governo nel rispondere a queste emergenze che citavo prima (dissesto idro-geologico; bonificare terre, disinquinare acque, ecc.): la mancanza di risorse. Le risorse sono scarse, è vero, ma il problema più grosso è come vengono destinate, perché la verità è che queste non vengono destinate a tutelare i diritti fondamentali dei cittadini, ma a favorire la cupidigia dei privati.

Eppure non è necessaria nessuna competenza in economia per sapere quale sarà il saldo di una politica economica che non si è mai degnata di far entrare nei propri conti i costi del dissesto idro-geologico, del disordine urbanistico e dell’incuria verso il patrimonio edilizio storico. Ci vorrebbe assai poco per calcolare il danno economico che incombe sulla penisola ove persistesse l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e di consolidamento preventivo dell’edilizia storica.

Facciamo due esempi.

Il primo.

Dal 1861 a oggi i terremoti distruttivi hanno colpito 1600 centri storici del nostro paese. Dopo questi terremoti lo Stato ha impiegato risorse per salvaguardare e ricostruire il più possibile. Questo sino al 2012, al terremoto dell’Aquila. Ricostruire? Mancano le risorse è stato risposto. Eppure i soldi per le spese militari ci sono: 26 miliardi di spese militari, più i 13 miliardi previsti per l’acquisto di bombardieri F-35. Trentanove miliardi per prepararsi a bombardare gli altri e quasi nulla per tutelare il nostro patrimonio storico-culturale?

Proprio così. Si è, quindi, scelto di abbandonare il centro storico dell’Aquila, circondandolo con una cintura di squallidenew towns senza né servizi né luoghi d’incontro, deportandovi la popolazione e disgregando il prezioso tessuto sociale della città storica.

Se si fosse agito così anche in precedenza oggi l’Italia avrebbe 1600 centri storici in meno. Un’altra Italia, fatta di squallide e disperanti periferie.

Speriamo che questa follia iniziata con l’Aquila non prosegua con Amatrice, Accumuli, ecc.

Ed anche qui come non ricordare che una cosa simile era già successa negli anni della Grande Depressione e ferocemente denunciata ancora una volta da Keynes con queste parole: “Invece di utilizzare l’immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, si creano i bassi fondi; e si pensò che fosse giusto e ragionevole farlo perché questi, secondo il criterio dell’impresa privata, «fruttavano», mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, si pensava, un atto di follia che avrebbe, nell’imbecille linguaggio finanziario, “ipotecato il futuro”. Ma nessuno può credere oggi che l’edificazione di grandi e belle opere possa impoverire il futuro, a meno che non sia ossessionatodalle false ideologie tratte da una astratta mentalità contabile… È la concezione del Cancelliere dello Scacchiere come presidente di una sorta di società per azioni che deve essere abbandonata”.

Ed invece no, l’Italia si è trasformata in un Spa, ossessionata, per riprendere le parole di Keynes, “dalle false ideologie tratte da una astratta mentalità contabile”

Facciamo un altro esempio.

Nel 2009, dopo la frana di Giampilieri presso Messina (37 morti, 564 sfollati), Bertolaso dichiarò cinicamente che era impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel 1908, seguito datsunami: 120 000 morti); due giorni dopo, il ministro Prestigiacomo dichiarò che i lavori per il Ponte sullo Stretto (10 miliardi o giú di lí) dovevano regolarmente proseguire.

Ma tutto ciò è incostituzionale. Viola l’art. 9 della Costituzione che sancisce che il territorio e il patrimonio storico-culturale sono valori primari ed assoluti la cui tutela non può essere subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici (sentenza della Corte Costituzionale 151/1986 che ha ribadito la: «primarietà del valore estetico-culturale (art. 9 Cost.) che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici»).

Ed ancora: «La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso e unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario e assoluto, precede e comunque costituisce un limite agli altri interessi pubblici» (n. 367/2007).

Insomma, la prima grande opera di cui il paese ha bisogno, vero volano per lo sviluppo, non sono ponti, TAV e autostrade, ma la messa in sicurezza del proprio territorio ed il recupero del patrimonio artistico e culturale esistente. Il lavoro è talmente tanto, visto il degrado cui si è giunti, che davvero si arriverebbe alla piena occupazione.

Ma chi ci governa procede imperterrito nella sua macelleria sociale.

Bene, ed ora che conosciamo i nostri diritti, di come vengano quotidianamente violati, una domanda, assolutamente legittima, sorge spontanea: che cosa può fare il cittadino per contrastare, armato di questi principi, il degrado che ci assedia?

Moltissimo. Ma non solo può fare, ha il dovere di fare.

Sino ad ora abbiamo parlato dei diritti che ci riconosce la Costituzione, ma abbiamo anche doveri sanciti dalla costituzione.

Uno di questi, il più importante, è stabilito dall’art. 52 della Costituzione che recita:

«La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».

Ma, attenzione, perché tale dovere riguarda non solo la difesa del territorio da azioni di guerra, ma anche la sua difesa da azioni distruttive portate a compimento da altri soggetti. (Paolo Maddalena)

Stabilito questo, come farlo?

Diciamo subito che la cosa peggiore che si possa fare è pensare ad azioni illegali e violente.

È la cosa peggiore perché, quando si scende sul terreno della violenza, si perde sempre. Ma, poi, non è necessario, perché la Costituzione ci mette a disposizione gli strumenti per difenderci.

Ed allora vediamo quali strumenti abbiamo per difendere la nostra vita e il nostro territorio.

Innanzitutto la Costituzione ci riconosce i diritti di «partecipazione» effettiva, sia alla funzione legislativa, sia all’azione amministrativa dei pubblici poteri, sia all’azione giudiziaria.

Per quanto riguarda l’azione legislativa, basti pensare al potere di iniziativa popolare per l’approvazione di leggi, nonché il potere di proporre e approvare i referendum abrogativi di leggi esistenti. Diritti che, come abbiamo visto, con questa riforma (innalzamento del quorum per poter proporre leggi o referendum) si vogliono fortemente limitare. Ma, ad oggi, ancora ci sono.

Il principio della «partecipazione» di tutti i cittadini all’attività di carattere amministrativo è sancito a chiare lettere dall’art. 118 Cost. Che afferma: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà».

Per quanto concerne l’azione giudiziaria c’è l’azione popolare, cioè il diritto, per ogni cittadino, di poter agire in giudizio per tutelare un interesse generale, collettivo (da non confondere con la class action che è cosa diversa).

Come insegna Paolo Maddalena, l’azione popolare è il diritto e dovere di resistenza collettiva al degrado delle città e delle campagne, alla razzia del paesaggio, all’esilio della cultura e del lavoro, alla spoliazione dei diritti; è promuovere singole azioni di contrasto agli atti dei poteri pubblici che vadano contro il pubblico interesse.

Facciamo un esempio. Abbiamo parlato prima della sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum. Bene, quella sentenza è stata possibile grazie all’azione promossa da un semplice cittadino – che lamentava di non aver potuto esercitare il diritto di voto in modo libero e diretto come previsto dalla Costituzione (per violazione degli artt. 48, secondo comma e 56 e 58 primo comma) – che ha agito per un interesse collettivo, come sottolineato nella sentenza della Corte che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum.

Ma sono numerosissime le sentenze in cui si dà conto di ciò. Si possono citare sentenze delle Sezioni unite della Corte di cassazione del 2011 concernenti le Valli di pesca della laguna veneta, ecc., e si potrebbe continuare.

Ma non è quello che qui interessa. Ciò che qui interessa è evidenziare che lo strumento per opporsi a tutto ciò c’è, e che si chiama, comunemente, azione popolare. E dobbiamo opporci perché, come disse il grande giurista Calamandrei: «lo Stato siamo noi», non i governi. I governi hanno fatto il contrario: hanno smontato lo Stato, ridotto lo spazio dei diritti, svenduto le proprietà pubbliche, anteposto il guadagno delle imprese al pubblico interesse, promosso la macelleria sociale. In nome di una concezione miserevole dell’economia come cieca obbedienza alle manovre della finanza, genuflessione ai mercati, concentrazione della ricchezza in poche mani, la democrazia è stata sospesa e mortificata.

Ma lo Stato siamo noi, ed abbiamo il dovere di difendere i nostri diritti ed il nostro territorio. La costituzione ci permette di farlo, e ci dà gli strumenti per farlo. Non vi cito ora tutti gli articoli del codice di procedura, o le leggi in questo senso, perché sono cose estremamente tecniche e, per chi non è del settore, enormemente noiose. Qui basti sapere che gli strumenti ci sono, che attivarli vuol dire riconquistare, in prima persona, un pieno “diritto di cittadinanza”, in nome della “sovranità popolare”, della moralità e della legalità costituzionale. Ed i cittadini hanno il sacro dovere di difendere lo Stato, perché, lo abbiamo visto, è inutile voltarsi dall’altra parte, perché la verità è che se una situazione è giusta o sbagliata la cosa, prima o poi, ci riguarda. E guardate, esiste sempre una soglia, superata la quale, vapresoattocheilnostrostessoagire o non agire,enonsoloquelloaltrui,ciminaccia.

Se non ci attiviamo per difendere i nostri diritti fondamentali, se accettiamo passivamente che continui questa macelleria sociale, come ebbe a scrivere Keynes, negli anni ’30 del secolo scorso: “la vendetta, oso predire, non tarderà”. E guardate che laviolenzapuòdivampareintempipaurosamentebrevi.

 

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