Nella ricerca del bene non può esserci giustizia senza bellezza
di Solange Manfredi
Inorridiamo davanti alle ingiustizie, ma orrore è anche la bruttezza che si diffonde in nome del progresso. [1]
Viviamo in una società che sta distruggendo se stessa, profondamente ingiusta e brutta, e i due scempi si compiono indissolubilmente associati. Perché?
Perché, come insegnava la cultura greco romana, nella ricerca del bene non può esserci giustizia senza bellezza.
Nelle sue forme più antiche, infatti, il bene assoluto era composto inseparabilmente da giustizia e bellezza poiché entrambe, bisogni archetipi dell’anima[2], erano ritenute componenti necessarie per l’equilibrio dell’uomo e della società.
di Solange Manfredi
Il bisogno di giustizia è qualcosa di naturale, di archetipo, che precede ogni educazione. Ma il bisogno di bellezza non è sostanzialmente diverso. Così simili sono le due aspirazioni, che una vittoria della bruttezza sulla bellezza è facilmente sentita come il male che vince sul bene ed il preferire la bruttezza alla bellezza appare sempre come un’azione malvagia.[3]
La bellezza, infatti, ha un compito etico[4], insostituibile:
Proprio per la sua inerente, grandiosa inesauribilità, la bellezza è capace di insegnarci che è inutile essere avari o smaniosi di accumulare piccolezze. L’immobilità serena che scaturisce dalla mostra meraviglia è la miglior medicina contro l’aggressività pedante, contro la competitività invidiosa, contro l’avidità odiosa che ci fa obesi, quasi sempre psicologicamente, talvolta anche fisicamente… Solo se abbiamo esperienza della bellezza possiamo comprendere a fondo le catastrofi dell’ingiustizia moderna. La deforestazione selvaggia e l’edilizia illegale sono forme di abusi che, in un unico atto, distruggono il bene pubblico – lo spazio comune – in senso etico ed estetico… La distruzione dell’ambiente, di specie animali e vegetali, l’etnocidio di culture non occidentali povere di produttività fanno pensare che i veri drammi siano tornati ad essere unitari, etici ed estetici insieme. Quando si pensa agli OGM o al catalogo della Monsanto, ovvero al genocidio delle piante meno desiderate e alla “soluzione finale” del problema agricolo, non si può pensare a questa solo come profondamente ingiusta, ma è necessario percepirne anche l’offesa fatta alla bellezza delle infinite varietà vegetali offerte dalla natura.[5]
E nella ricerca del bene la giustizia non è separabile dalla bellezza in nessun settore, neanche in quelli che, erroneamente, riteniamo debbano essere soggetti solo a fredde e impersonali regole matematiche.[6]
Keynes, uno dei geni del ‘900, non aveva dubbi sul fatto che anche” il metodo dell’economia politica dovesse essere ispirato alla bellezza e alla giustizia, e nel criticare il liberismo selvaggio che si era imposto a cavallo tra l’800 e il 900 non esitava ad affermare: “Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo”.[7]
Oggi, invece, le forze che contano nella società diventano estranee se non contrarie all’estetica:
Invece di utilizzare l’immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, si creano i bassi fondi; e si pensò che fosse giusto e ragionevole farlo perché questi, secondo il criterio dell’impresa privata, «fruttavano», mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, si pensava, un atto di follia che avrebbe, nell’imbecille linguaggio finanziario, «ipotecato il futuro»…[8]
La conseguenza è che oggi abbiamo accesso ad una sovrabbondanza di beni ed una quantità quasi inesauribile di svaghi, ma non abbiamo quasi più accesso alla bellezza, in nessun campo.
La comunicazione di massa una volta era affidata all’estetica, un’estetica che era fruibile da tutti, non aveva bisogno di dotte spiegazioni ed esprimeva alti valori.
Oggi la comunicazione è velocità, novità, sorpresa.[9] Il pubblico si aspetta immagini e racconti emozionanti, non belli.
Gli edifici si sono fatti brutti e costosi: Nessun tempio greco ha mai ferito un paesaggio, anzi collabora con esso, si adatta al paesaggio nel momento stesso in cui lo usa.[10]
Tempio greco di Taormina
Oggi, invece, le nuove costruzioni, c.d. funzionali, affidate ad insigni architetti non usano, bensì abusano della natura circostante.
Druzhba Sanatorium di Gelendžik
Il campo dell’estetica si è gradualmente ridotto all’arte, ovvero a quanto si può esprimere intellettualmente, classificare accademicamente, sottoporre a critica artistica e vedere nelle gallerie d’arte.[11]
Anche questa è arte? Forse. Ma la bellezza è lo scopo originario dell’arte e va ben oltre la classificabilità, oltre ogni classificazione perché ha ad oggetto il sublime e l’indicibile.
Quando l’arte si compromette con il potere e cerca la Corte ecco che il bello scompare. Se Piero della Francesca ci mostra ancora un mondo infinito perché compenetrato dal sublime,
poco dopo Caravaggio ce ne mostra uno finito perché compenetrato dagli inferi. L’artista cerca un bello che non è più tale perché, negando le sue origini greche, non coincide più con il bene.[12]
La stessa cosa è avvenuta per il diritto, dove le leggi, che dovrebbe promuovere la giustizia, oggi più che mai paiono uno strumento che, in mano ad abili retori, producono situazioni ingiuste perché, abbandonata la ricerca del bene, vengono usate “da molti giuristi per servire il Principe”.[13]
Ma, nella ricerca del bene, l’equilibrio mai superato è la composizione di bellezza e giustizia.
L’uomo comune ignora l’equilibrio tra questi due bisogni non solo perché ne ha soppresso uno, ma perché ha perduto il bisogno di equilibrio. La necessità stessa di esperienze equilibrate è un bisogno estetico, il bisogno etico, non essendo più parte di una necessità di equilibrio, può imporsi solo in quanto bisogno pratico, funzionale, utilitarista: un insieme di normative che non ha più riferimento a sentimenti profondi, e soprattutto ad un profondo senso di equilibrio.[14]
E così oggi abbiamo leggi che:
– modificando le norme internazionali, che hanno retto il mondo dalla pace di Vestfalia in poi, giustificano l’attacco preventivo di un paese basato solo sul sospetto, senza che vi sia una minaccia visibile e provata;
– giustificano il sequestro e la tortura con lo “stato di necessità”;
– permettono il bombardamento indiscriminato di intere nazioni per vendicare la morte di un soldato.
Le leggi ingiuste sono ormai una costante quotidiana a cui il cittadino si è assuefatto, di cui non si accorge neanche più, o si è rassegnato o, peggio ancora, ne approfitta.
Ma l’ingiustizia e la bruttezza sono violenze inferte all’anima dell’uomo, e la violenza e diseducazione possono dar prova di essere un costo insuperabile nella costruzione di una società.[15]
Privata infatti dell’insostituibile compito etico della bellezza (ciò a cui oggi la gente aspira è il lusso, che altro non è che una degenerazione del bello, una perversione, una patologia. Il latino luxus significa fuori posto, la stessa parola significa sia lusso che lussato), i costumi (mores) sono profondamente cambiati e nella nostra società:- si può fare orge in palazzi istituzionali;
– si può chiedere una raccomandazione per arrivare ai vertici della magistratura a loschi faccendieri;
– si può gettare sul lastrico migliaia di risparmiatori ed essere promossi ai vertici della finanza;
– si può depistare, mentire, corrompere, truffare, estorcere, stringere patti con organizzazioni criminali e salire ai vertici delle istituzioni;
– si può distruggere aziende sane, lasciare senza lavoro migliaia di persone e guadagnare milioni di euro;
– si può ridurre in schiavitù migliaia d’immigrati;
– si può chiedere una raccomandazione per arrivare ai vertici della magistratura a loschi faccendieri;
– si può gettare sul lastrico migliaia di risparmiatori ed essere promossi ai vertici della finanza;
– si può depistare, mentire, corrompere, truffare, estorcere, stringere patti con organizzazioni criminali e salire ai vertici delle istituzioni;
– si può distruggere aziende sane, lasciare senza lavoro migliaia di persone e guadagnare milioni di euro;
– si può ridurre in schiavitù migliaia d’immigrati;
– si può guadagnare in una sera quanto un ricercatore in un anno solo perché, grazie a una raccomandazione, ottenuta magari per meriti fisico-erotici, si è riusciti a fare una comparsata in TV.Oggi non solo si può, si deve, se si vuol essere un vincente. Così nella nostra società l’uomo di successo è spesso un cinico senza onore che «all’opposto del comandante che mette in salvo i suoi e affonda con la nave, è lui il primo che deve salvarsi», uno psicopatico come hanno dimostrato studi internazionali.[16]
La conseguenza è che oggi nei posti guida del mondo si è seduta una immoralità senza precedenti. Al bello si è sostituito il lusso ed all’etica si è sostituito il mercantilismo… Mercantilismo delle idee, della cultura, del corpo. L’uomo diviene un mezzo, merce di scambio sul libero mercato, un mercato incapace di autolimitarsi, senza etica e che conosce un’unica religione: il desiderio, ed un unico Dio: il denaro.[17]
Siamo una società viziata, che non ha più limiti, costituita da individui che non sono più in grado di trascendere i propri impulsi individuali.
Siamo una società viziata, che non ha più limiti, costituita da individui che non sono più in grado di trascendere i propri impulsi individuali.
Già, il superamento dei limiti, che nella cultura greco romana era considerato il peccato più grande, l’hybris.
Prima di farsi cristiano il nucleo della civiltà europea professava il politeismo greco romano. L’unico comandamento cui erano sottoposti era il rispetto dei limiti. Nulla di troppo diceva l’iscrizione presso l’oracolo di Delfi. Bisognava rifuggire l’arroganza, rispettare i limiti naturali. Così essenzializzata, l’etica imponeva anche al l’estetica il suo canone centrale: la sobrietà.[18]
Poi le cose cambiano.
La morale giudaico cristiana aveva assicurato regole comprensibili e relativamente funzionali per amministrare i comportamenti e somministrare punizioni, ma imporla aveva richiesto un alto costo alla consapevolezza etica degli individui. La società occidentale era riuscita a darsi norme comuni insistendo sull’obbligo a scapito della comprensione. Le regole generali avevano avuto la precedenza. In altre parole: “avere la coscienza a posto” significava “stare alle regole”, non ( come direbbe oggi la psicologia) “essere consapevole”.[19]
Così, oggi, non solo non si prova più vergogna ad affermare davanti ad una legge palesemente ingiusta “Forse non sarà giusto, ma se la legge me lo permette…”, ma non ci si rende neanche conto, ovvero non si è consapevoli, che se una situazione è giusta o sbagliata prima o poi ci riguarda.[20]
Ma nessuna società può fare a meno di una educazione al bello, perché solo comprendendo la bellezza si può valutare anche la giustizia, e ciò che resta per compierla.[21]
Ed è proprio il superamento di questa è “vecchia etica”, che nega l’equilibrio necessario tra giustizia e bellezza, il nuovo grande compito etico che siamo chiamati a compiere oggi per costruire una nuova società:
Un compito immenso, perché immensa è la posta in gioco.[22]
[1]Luigi Zoja, Giustizia e bellezza, Bollati Boringhieri, maggio 2007, Torino
[2]Ibidem: “Vi è, infatti, un ineguagliabile desiderio di giustizia. Un bisogno che nell’uomo pare ancor più invincibile di quello che porta verso Dio. A differenza di quest’ultimo infatti il bisogno di giustizia sopravvive alla secolarizzazione e all’ateismo. Anzi la secolarizzazione e l’ateismo sembrano rafforzarlo …possiamo fare a meno di Dio, ma non del principio di giustizia. Noi non sentiamo tanto un interesse, quanto una necessità di cercare giustizia. La giustizia è ben altro di un sistema di regole esterne: si impone in noi dall’interno della personalità. Non è solo un bisogno originario, archetipo, è anche un bisogno che ha la precedenza sugli altri e li subordina a sé”.
[3] Luigi Zoja, 2007
[4] Intesa nel senso che fu da Aristotele in poi: ricerca del bene.
[5]L. Zoja, 2007
[6]Giorgio Lunghini, 2012, pp. 30-31: «In visita alla London School of Economics, nel 2009, la Regina Elisabetta aveva chiesto – con regale candore –come mai soltanto pochi economisti avessero previsto la crisi. Dieci autorevoli economisti inglesi hanno poi scritto alla Regina una lettera, in cui scrivono che una delle ragioni principali dell’incapacità della professione di dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è una formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: così che l’economia – l’economics – è diventata una branca delle matematiche applicate. I firmatari della lettera ricordano anche che l’insospettabile American Economic Association aveva costituito, nel 1988, una commissione sull’insegnamento post universitario dell’economia negli Stati Uniti. La commissione, nelle sue conclusioni, manifestò il timore che “i programmi di formazione post-laurea possano produrre una generazione con troppi “idiot savant”, addestrati alle tecniche ma ignari delle questioni economiche importanti”. Nell’educazione degli economisti, aggiungono i firmatari della lettera, vengono omesse la storia economica, la filosofia e la psicologia, e non vengono messe in discussione né l’opinabile credenza in una “razionalità” universale né l’“ipotesi di mercati efficienti”. Anche per questa ragione non si è dato il peso dovuto agli avvertimenti non quantificati circa la potenziale instabilità del sistema finanziario globale. C’è un tipo di giudizio, quello cui si può attingere immergendosi nella letteratura e nella storia, che non può essere espresso adeguatamente in modelli matematici. In breve: la matematica decontestualizza i suoi oggetti, e in campo economico ciò comporta il rischio del riduzionismo e della falsa neutralità. L’unico antidoto è la conoscenza della storia e la consapevolezza – l’orgogliosa consapevolezza – della dimensione politica dell’analisi economica».
[7]Giorgio Lunghini, Conflitto, crisi, incertezza; Bollati Boringhieri, 2012, pp. 102-103: «Il pensiero di Keynes è realmente pericoloso, poiché comporta una riflessione e una scommessa sui fini, anziché sui mezzi, che la politica può e deve darsi in questo mondo. Questo mondo, il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico, a Keynes non piace: “Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo… se lo scopo della vita è cogliere le foglie dagli alberi fino allamassima altezza possibile, il modo migliore di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. I difetti più evidenti della società economica nella quel viviamo sono, per Keynes, l’incapacità a provvedere ad una occupazione piena e la distribuzione arbitraria ed iniqua della ricchezza e del reddito; e con eccellenti argomentazioni teoriche Keynes nega che possa essere lui –il grande capitano di industria, il maestro individualista – che ci condurrà per mano in paradiso. Dovrà dunque intervenire lo Stato. Questo non significa che lo Stato debba sostituirsi all’impresa privata: “Dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono tecnicamente individuali. L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non le prende lo Stato”».
[8]J. M. Keynes, Autosufficienza nazionale (1933) in ID, La fine del laissez-faire e altri scritti, cit. pg. 95 e 97.
[9] La velocità della notizia impedisce al verifica e l’approfondimento ed il messaggio quotidiano è estraneo alla bellezza, oltre a ciò anche all’onestá. La dipendenza dalla novità induce il pubblico, lentamente, alla disonestà, richiedendo la notizia a tutti i costi, indipendentemente dalla sua rilevanza o addirittura dalla sua veridicità. Anche l’emozione della sorpresa causa dipendenza.
[10] Zoja. 2007
[11]Ibidem
[12] Ibidem.
[13] Antonio Cassese, Il sogno dei diritti umani, ed. Feltrinelli, 2008, pg. 96
[14]L. Zoja, 2007
[15]L. Zoja, 2007
[16] L. Zoja, La morte del prossimo, Einaudi, 2009. Negli Stati Uniti e in Europa alcuni ricercatori hanno comparato un gruppo di manager di successo con criminali e pazienti psichiatrici gravi. Gli studi sono stati effettuati non solo in istituzioni diverse ma anche in continenti diversi. Il risultato è però stato lo stesso «la personalità del manager brillante ha non pochi elementi in comune con quella dello psicopatico».
[17]Ibidem, «Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento, non è il tempo di dire quel che tutti vediamo? E’ morto anche il prossimo. La società retta da due pilastri (ama Dio e il prossimo tuo come te stesso) non ha avuto più equilibrio da quando uno è crollato. La società di oggi è laica. La morte di Dio ha svuotato il cielo. Ma niente resiste al risucchio del vuoto. Lo spazio celeste è stato riempito con l’assunzione dei miracoli della scienza e dell’economia fra le divinità. Troppo spesso si dimentica che desiderare significa proprio questo: smettere (de-) di affidarsi agli astri (sidera) farne a meno, sostituirsi al cielo. Continuiamo ad aver bisogno di adorare qualcuno, ma il posto di Dio è preso dall’uomo e dalle sue opere. Insieme sono elevate a modello e scopo per altri uomini. L’uomo ideale è trasfigurato, divinizzato. Di conseguenza non è più un uomo vicino. Non è più una vista: è una visione. Ecco l’origine del culto delle persone famose, delle ‘celebrieties’. Naturalmente le persone vicine continuano ad esistere, ma la loro banale imperfezione le rende più estranee di un tempo… Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. E’ un orfano senza precedenti nella storia…».
[18] Zoia, 2007
[19]Ibidem
[20] Ibidem, In questi squilibrio sia la legge che il suo contrario, il crimine finisce per ritirarsi in una zona fredda senza emozioni. Qui si appetta l’occasione propizia per agire nel calcolo delle impunità: e non importa se questo avviene perché reso lecito con artifizi formali o perché semplicemente impossibile da scoprire. Eliminando l’orrore, scompare anche la parte profonda dei sensi di colpa.
[21] Ibidem
[22]Ibidem