Masterchef Vs. Aglio e Olio
di Stefano Rofena
Nell’incredibile proliferare di trasmissioni tv culinarie si vedono persone di tutto il mondo, di tutte le razze, di tutte le età – un programma australiano presenta baby-chef di appena 8/10 anni in gara tra loro – alle prese con ricette e pietanze cucinate e presentate nei modi più fantasiosi. Questi atleti del saltimbocca, culturisti del muscolo di vitello, virtuosi del languorino, tifosi dell’aroma, artisti dello schizzo di aceto balsamico, sono esaminati da giudici implacabili che, con un sottofondo musicale rubato al thriller più truculento, valutano parametri quali: tempistiche di preparazione, aspetto estetico, consistenza, grado di cottura, accostamento degli ingredienti e in ultimo il sapore.
Se tu, che sei giù dal letto dalle sei e trenta, richiamato allo stato larvale di veglia da un caffè nero, rimbambito dal pressing di un lavoro incomprensibilmente frenetico, dall’orario della piscina/danza/karate dei pupi; tu che in preda ai patimenti delle sette e quaranta sai proporre a malapena due spaghetti aglio e olio dovessi essere giudicato per gli stessi parametri, non potresti che sentirti un deficiente.
Ma proviamo lo stesso a fare un contro-esame di questa semplice pietanza.
Gli ingredienti sono solo tre: spaghetti, aglio e olio. A volerne una versione agonistica si potrebbe aggiungere peperoncino e prezzemolo. Sembra facile, no?
Si fa presto però a dire spaghetti. Spaghetti presi a casaccio dallo scaffale del supermarket o preparati con farine di grano coltivato con metodo biodinamico, impastati con acqua di sorgente incontaminata, estrusi con trafile al bronzo, essiccati lentamente, prodotti da maestranze pagate con salari equi e solidali in una azienda biologica che si alimenta con energie rinnovabili e compensa l’anidride carbonica prodotta, distribuiti da una filiera corta in negozi dove c’è ancora un contatto umano?
E potremmo approfondire molto di più non solo sull’aglio e sull’olio, ma anche su ogni minimo elemento di questa infinita catena di sostanze, energie, forze vitali e – possiamo dirlo? – spiriti che collaborano a portare sulla nostra tavola sapore, nutrimento e vitalità. Se non vogliamo citare gli esoterici esseri elementari che realizzano i miracolosi processi della natura, potremmo alla prima forchettata portare un momento il pensiero allo spirito che ha animato l’agricoltore, il produttore, il commerciante e le mille persone che li supportano nel complesso e faticoso processo che festeggiamo con un esplosione di piacere nella nostra bocca.
Eppure a guardare questi programmi di cucina sembra che se non fai un kamasutra di ingredienti eroticamente compenetrati, sensualmente sdraiati sul piatto come languide geishe, non sei che un rozzo morto di fame che soddisfa una sua necessità primitiva.
Invece io non ce la faccio più a sentire nominare le parti anatomiche di tanti animali che, lungi dal distinguere se sono stati allevati con amore e rispetto oppure “prodotti” in allevamenti-lager alla stregua di materie prime indistinte, dovrebbero indicare la sfumatura organolettica a preludio dell’orgasmo gustativo. Ovviamente senza la minima considerazione né gratitudine per il sacrificio di un essere senziente anche altamente evoluto.
Lo confesso: mi piacerebbe vedere una trasmissione dove si degusta con la stessa pervicace sottigliezza quel miracolo di alimento che può essere un “umile” frutto che si offre al nostro alzare un braccio, un “povero” ortaggio al nostro chinare la schiena; dove si valuta non solo e non per primo l’aspetto estetico-sensorio ma l’intenzione del coltivatore magari gravato da mille fatiche e forse da una grandinata che può butterare un raccolto e relegarlo a seconda scelta, che si ostina a coltivare una varietà non compresa nei “regolamenti comunitari” che vorrebbero omologare la varietà vitale a “parametro economico”; così come si potrebbe dare un voto a tutta la filiera, ai servizi di distribuzione e commercio, eccetera.
Ho scritto di valutare “l’intenzione” perché se nel mondo dell’economia materialista vale solo il risultato, il prodotto, la prestazione, nel mondo dell’economia spirituale, che vuole essere fratellanza, vale di più la buona intenzione. Questa potrebbe non arrivare a risultati apprezzabili all’apparenza o addirittura presentare un fallimento, oggi. Ma anche fosse, domani avrà preparato il terreno a nuovi tentativi, chiarito errori, indicato una tendenza. E comunque, nonostante l’indispensabile valore vitale del semplice pane, che non può neanche aspirare al red carpet e alla ribalta del rutilante mondo dei Master Chef, non si vivrebbe neanche di solo pane se non fosse impastato d’amore.
Nell’impasto dei cuochi dei coocking-talent-show io ci trovo ambizione, sfida, concorrenza, ansia, egocentrismo. Sono ingredienti insapore e inodore come i veleni più subdoli.
Ma non riusciranno a farmi passare l’appetito. Già sento l’odorino dell’aglio che sfrigola allegro accanto alla pentola che bolle!
Articolo di: Stefano Rofena