Unificazione tedesca: non mi parlate di DDR
A 25 anni dalla caduta del Muro, non voglio più sentir parlare della “vecchia, cara DDR”. Io la conoscevo la DDR, e non solo di nome. Ci sono stato e me la ricordo bene.
di Piero Cammerinesi (corrispondente dagli USA di Coscienzeinrete Magazine e Altrainformazione)
Houston, 6 Novembre 2014 – Mi ricordo bene le tre ore di attesa al confine di Hirschberg, in Baviera, con i Vopos – Volkspolizei, polizia del popolo, così si chiamavano – coi mitra spianati, gli specchi sotto la macchina, i passaporti requisiti, le minacce e le insinuazioni, il cambio di valuta obbligato, il sequestro di giornali, cassette audio, libri.
Mi ricordo bene la ‘terra di nessuno’ a perdita d’occhio, le torrette di segnalazione e i mitragliatori che entravano in azione automaticamente se qualcuno si avvicinava ai reticolati.
Mi ricordo bene l’interrogatorio quando mi chiesero perché avessi sul passaporto il permesso di soggiorno nella Repubblica Federale e parlassi così bene il tedesco. Troppo bene, dicevano, senza accento, nascondevo certamente qualcosa.
Mi ricordo bene quando mi dissero che ero un impostore, dato che le macchine italiane avevano la targa nera mentre la mia ce l’aveva bianca. Gli spiegai che era da pochissimo che in Italia le targhe automobilistiche erano cambiate e la mia auto era stata appena immatricolata.
Mi ricordo bene quando, alcuni giorni dopo, mi fermarono per – a loro dire – eccesso di velocità e allorché, ben sapendo di guidare ampiamente sotto il limite, chiesi al poliziotto di darmi una dimostrazione della mia infrazione la risposta fu: “è così perché lo dico io”.
Mi ricordo bene quando, visitando il vecchio cimitero di Berlino Est, che si trovava a ridosso del Muro uscì – da dietro una tomba – un Vopo con il mitra puntato urlando di andare via. Cercai di spiegargli che non era certo nei miei piani fuggire all’Ovest, visto che dall’Ovest ci venivo, ma non ci fu nulla da fare, aveva già armato il mitra.
Mi ricordo bene in un locale a Lipsia, quando un giovane architetto, con le lacrime agli occhi, tirò fuori dalla tasca una carta d’identità sgualcita e la mise sul tavolo dicendo: “vedi, qui c’è scritto ‘cittadino tedesco’; dunque perché non posso andare dall’altra parte a incontrare i miei parenti? Io non voglio scappare, questa è la mia terra, ma perché non posso andare per una settimana, una sola settimana, non chiedo di più, nell’altra Germania?”
Mi ricordo bene le Trabant di cartone pressato col fumo che saliva dal cofano aperto sulle autostrade e le prime Golf che avevano solo i funzionari del partito e che costavano come una casa.
Me la ricordo bene la DDR e mi ricordo anche il silenzio degli amici in Repubblica Federale quando si parlava, negli anni ’70, di Wiedervereinigung, di riunificazione. Nessuno rispondeva, si guardavano con aria imbarazzata intorno e cambiavano argomento. Solo quando sul tavolo si erano accumulate una decina di bottiglie di birra – ormai vuote – allora arrivavano sospiri e lacrime.
Drüben, si diceva – di là – il nome della DDR – Deutsche Demokratische Republik – non veniva mai pronunciato, come se pronunciarlo costituisse di per sé una legittimazione di quella orribile ferita aperta, sanguinante, nel cuore dell’Europa
Me la ricordo bene la DDR e vi assicuro che quando – 25 anni fa – il Muro è crollato io ho pianto di gioia.
Per tutti quelli che sono morti per fuggire da quella prigione a cielo aperto, per tutti quelli che hanno dovuto viverci, per tutti noi che abbiamo dovuto subire lo stupro dell’Europa da parte dei cosiddetti vincitori.
Per tutti loro, e per me che quel Paese amo come fosse il mio, vi prego, non mi parlate di DDR.
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