MURI E FILI – riflessioni sugli eventi in Palestina.
di Claudio Tomaello
Ho delle foto sparse sul tavolo. Le ha scattate Cinzia, nell’estate 2009, durante un viaggio in Palestina.
Stasera ho bisogno di allontanarmi dalle odierne cronache di guerra. Qui, nel silenzio notturno della stanza, metto per un po’ da parte tutto ciò che so (o credo di sapere) su questo conflitto: gli inganni, i torti subiti, le ingiustizie che in questi anni sono entrate in tutte le case senza badare alla nazionalità e al credo religioso, e provo a concentrarmi sulle immagini che ho davanti. Mi mettono a disagio, come quando senti un odore che non ti piace.
Nella prima vedo un muro alto, grigio. Serpeggia sgraziatamente sul territorio. Poi vedo tante persone in coda, volti e corpi parzialmente coperti dalle sbarre metalliche che delimitano lo stretto corridoio che devono percorrere fino ad arrivare al posto di blocco dove ci sono dei soldati con le armi.
La mia mente inizia come al solito a distribuire colpe e ragioni. “Devo trovare un modo di fermarla”, mi dico. Mi viene in aiuto un ricordo dell’infanzia.
Da piccolo facevo un gioco: quando una persona catturava la mia attenzione, mi immedesimavo in lei e guardavo il mondo coi suoi occhi.
Ci provo.
Comincio con quel signore in coda con la barba e il vestito lungo fino ai piedi. Poi mi sposto su quel soldato laggiù, così giovane che avrà appena 18 anni.
Non sono più così bravo con questo gioco, le immagini che si formano nella mia mente sono molto labili e svaniscono come i sogni la mattina: evidentemente l’età mi ha indurito. Comunque una sensazione resta impressa chiaramente in me: sia nei panni del signore con la barba che in quelli del soldato col fucile, ho avvertito un impulso simile: un’onda d’odio.
E’ nato allora in me un pensiero nitido: tutta quella situazione (il muro, le sbarre, la coda, i fucili) produce come risultato netto un aumento di odio.
Ho tentato di tenere fermo questo pensiero e di sostituire al confuso turbinio di emozioni che in genere mi abitano una forma di empatia per il dolore che emanava da quella foto.
È stato allora che li ho visti.
Mi succede spesso: quando osservo una cosa, inizialmente non ne colgo tutti gli aspetti.
Per accertarmi di quell’immagine ho riprovato a fare il gioco: ho rimesso i panni del signore con la barba e del ragazzo col fucile e sulle braccia, sulla testa e sulle gambe ho sentito chiaramente qualcosa che tirava.
Erano fili.
Fili sottili – quasi invisibili – attaccati al corpo: alcuni salivano, altri tendevano verso il basso.
Se guardo la foto con gli occhi di bambino, non posso non vederli: sono attaccati a tutte le persone.
La prima impressione di sgomenta sorpresa lascia spazio a una lucida consapevolezza: conosco bene quei fili. Si impigliano nella mia carne tante volte al giorno: ogni volta che penso pensieri non miei, ogni volta che seguo volontà che non mi appartengono, ogni volta che alimento emozioni importate. In quei momenti io non ci sono più: divento marionetta.
Quando giudico o quando odio quei fili diventano particolarmente resistenti e mi comandano.
Così ora, nel pieno della notte, se dovessi raccontare gli eventi tragici di questi giorni direi che essi sono fabbriche di marionette, da entrambe le parti in conflitto.
Sono nel dolore per questi miei fratelli che subiscono un giogo così grande e sogno il giorno in cui saremo consapevoli delle ragnatele che ci manovrano e inizieremo a togliercele l’un l’altro.
Ho delle foto sparse sul tavolo.
In una, mi sembra, c’è una donna senza fili.
Scritto da Claudio Tomaello