LA LUCE DEI RACCONTI
di Claudio Tomaello
piccolo, quando capitava di fare dei viaggi di notte, stavo per tutto il tragitto con la faccia rivolta al finestrino. Guardavo i fari delle altre auto, i riflessi dei lampioni, ma mi colpivano soprattutto le luci che provenivano dalle finestre delle case. Mi divertivo ad immaginare le vite che si celavano dietro quelle tende e, non so perché, davo per scontato che fossero belle.
Non avevo ancora sostituito la fantasia con la ragionevolezza e quindi era evidente che le distanze non si misuravano in chilometri ma in racconti.
Sapevo per esempio che durante il viaggio di ritorno da casa dei nonni potevo fantasticare su circa tre storie: la finestra della figlia della contessa che voleva sposare uno straniero, il cancello del bulldog che cacciava i gatti e componeva poesie e poi, ovviamente, la rete del campo da calcio dove sarei diventato un campione come Platinì.
Da allora per me una luce di notte fa casa, carezze e calore. E se non c’è la luce, va bene un racconto, l’effetto è lo stesso. Di più, la somiglianza arriva fino all’essenza: entrambi infatti nascono ad oriente e dissipano ombre.
Da quando, grazie ad un libro di Martin Buber, ho incontrato la tradizione chassidica, l’ho subito amata molto. Le storie di questa tradizione ebraica dell’est Europa mi riempiono di gioia. Credo che il motivo principale sia la sensazione di apertura che mi trasmettono: non definiscono, non impongono, ma interrogano e scorgono orizzonti. E spesso lo fanno con le armi dell’ironia.
Il racconto che riporto di seguito parla di nostalgia, di nostre capacità che nel tempo sono andate perdute e parte dalla considerazione che quando non sei più in grado di fare qualcosa, ti restano soltanto le parole.
Il racconto è centrato su questo “soltanto”.
In molte concezioni letterarie le parole sono vuote e non riescono a descrivere la vera realtà delle cose. Nella tradizione chassidica, invece, è “soltanto” attraverso le parole che è possibile far rivivere le antiche sapienze pratiche, in un movimento che va molto al di là di una pur importante operazione mnemonica: sono gli stessi racconti, infatti, a diventare gesto.
Ciò si sposa con la visione della Scienza dello Spirito di Rudolf Steiner: il rapporto con il Mondo Spirituale, che una volta era naturale ma inconscio, oggi deve essere conquistato da ognuno attraverso un cammino di consapevolezza.
E di questa consapevolezza i racconti possono essere strumento e sprone.
Si narra che quando Baàl-Shem, il santo e maestro, doveva assolvere un compito difficile per il bene della comunità, si recava in un posto segreto del bosco, accendeva magicamente un fuoco e recitava una preghiera speciale. E, così facendo, otteneva da Dio ciò che chiedeva.
Una generazione dopo, un suo successore, il Maggìd di Meseritz, quando si trovava dinanzi allo stesso compito, non conosceva più il modo di accendere quel fuoco ma si recava in quel posto segreto del bosco e diceva quella speciale preghiera, ottenendo lo stesso da Dio ciò che chiedeva.
Ancora una generazione dopo, un altro grande maestro non sapeva più nè come accendere il fuoco né quale speciale preghiera dire ma si recava in quel luogo segreto del bosco, ottenendo lo stesso ciò che chiedeva.
E noi, oggi? Non ricordiamo più né l’arte di accendere quel fuoco, né le formule di quella speciale preghiera e nemmeno dove si trovi quel luogo segreto del bosco.
Ma di tutto questo possiamo raccontare la storia e, se la narriamo con cuore cosciente, ottenere lo stesso da Dio ciò che chiediamo.
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