L’IMPORTANTE E’ VINCERE O PARTECIPARE?
di Claudio Tomaello
Sono al tavolo con Machiavelli e de Coubertin.
E’ il mio turno, lo so. Ma non so cosa dire. Avrei bisogno di un aiuto.
A volte mi capita, non solo in sogno, di non avere la risposta pronta.
L’ultima volta è accaduto l’altra sera leggendo su un giornale le dichiarazioni di un calciatore che aveva appena perso una finale: “La medaglia l’ho tolta appena mi è stata messa al collo. I secondi posti non si festeggiano, ma si cancellano”.
Istintivamente ho reagito con indignazione a questa frase: era chiaro che per me era falsa, ma non sapevo perchè.
Mentre ci pensavo, dal passato sono affiorati un po’ di ricordi.
Campo brullo, linee storte e buchi nelle reti: questo era il campetto della parrocchia. Ma io quella realtà la dipingevo con l’entusiasmo dell’età, con la rivalità con quelli di quarta, con il sogno di arrivare in finale. E così il campetto diventava un grande stadio, lo zio di Cristian un arbitro malvagio, il goal di una sera il trofeo di tutta l’estate.
Quanti anni a giocare a calcio! Le regole le conoscevo bene.
Tuttavia c’era qualcosa che non mi tornava, anche se non sono mai riuscito a capire cosa fosse.
Voglio dire: ci sono due squadre che si affrontano, lo scopo è fare un goal più dell’avversario e vincere la partita. Si gioca per vincere, questo è chiaro. E un inevitabile corollario di questo teorema è che se vinci sei felice.
Io però a volte ero la negazione di questa teoria. Non riuscivo a spiegarne il motivo ma a volte, se ce l’avevo messa tutta, ero più contento dopo una sconfitta che dopo una vittoria. Oppure se vedevo un avversario fare una bella giocata, andavo a complimentarmi con lui.
Alcuni giustificavano questi miei strani comportamenti con il mio carattere (“cosa vuoi farci, è un bravo ragazzo!”), altri ipotizzando una mia lontana parentela con il barone De Coubertin.
Io sorridevo perplesso e senza convinzione.
Sapevo che c’era dell’altro, ma non riuscivo a trovarlo.
Come ora, in sogno, i miei due compagni hanno ben chiara la loro teoria: Machiavelli gioca per vincere, de Coubertin per partecipare.
E io? Per che cosa gioco?
Mentre mi arrovello, vedo un ombra avvicinarsi al tavolo. Punta su di me. Ha sandali d’oro ai piedi, in una mano una mazza di cuoio, nell’altra un filo di lana molto lungo. Prende uno sgabello e si siede al mio fianco. Inizia a parlare senza guardarmi, mentre con la mano piano piano riavvolge il filo: “Cosa ho fatto io? Te la ricordi la mia storia? Sono arrivato a Creta, sono entrato in quel labirinto e ho ucciso quel mostro. Ma secondo te ho vinto o ho perso?”
Sto per rispondergli che ha vinto, lo sanno tutti, lui è quello che ha ucciso il Minotauro! Ma i suoi occhi umidi e le mani che continuano a lavorare il filo mi bloccano e mi parlano di una grande nostalgia e di un’altra verità.
“Io ho fallito. Ho realizzato una grande impresa, certo, ma sono uscito da quel labirinto uguale a come ero entrato. Questo è stato il mio fallimento: vivere senza cambiare.”
Machiavelli e de Coubertin sono immobili.
Lui invece improvvisamente si volta verso di me, quasi gridando: “E Arianna … Arianna me lo avrebbe detto, se solo gliene avessi dato la possibilità … me l’avrebbe detto che il Minotauro non era il nemico da sconfiggere, ma una parte di me da integrare. Arianna … Arianna me lo avrebbe detto che l’eroe non è colui che vince, ma colui che attraverso le esperienze cresce in amore e saggezza.”
Scende il silenzio, Teseo continua a fissarmi, poi scuote la testa e si alza.
Vorrei dirgli tante cose ma in bocca non trovo parole. La sua mano ripone nella mia il gomitolo di lana, poi mi stringe una spalla e se ne va.
Sono al tavolo con Machiavelli e de Coubertin.
E’ il mio turno, lo so. Adesso però so cosa dire.
Stringo il gomitolo tra le mani e li guardo negli occhi: “Tu giochi per vincere. Tu per partecipare”.
Io, invece, gioco per cambiare.
Vivo per cambiare.
Claudio Tomaello
www.claudiotomaello.com
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