Abbiamo bisogno dello Sport di Gastone e di “Genny ‘a Carogna”?
di Fausto Carotenuto
Fatti di sangue a Roma, sparatorie, pestaggi tra tifoserie. Personaggi inconsapevoli e aggressivi, con le mani, le armi o le parole, che diventano famosi perché capeggiano risse e tifoserie violente.
Ma perché tutto questo? Perché da anni questa realtà delle tifoserie organizzate e violente viene alimentata e lasciata fiorire?
Per vari motivi. Uno dei quali è che avere in mano tifoserie di “grandi “ squadre significa controllo del territorio da parte del potere. Questo avveniva già al tempo degli antichi romani, che venivano tenuti buoni con “panem”, pagnotte gratis per mesi, accompagnate da “circenses” spesso violenti. Così sfogavano la loro aggressività all’interno di stadi e circhi, invece che rivolgerla contro grandi poteri schiavizzanti. Lo sport come valvola di sfogo e di controllo nelle mani del potere. Lo sport considerato come competizione, come sostituto psichico della guerra militare per la vittoria su qualcun altro. Lo sport come valvola di sfogo della repressione sociale ed economica.
Anche da noi negli ultimi decenni, sia pure con alcune lodevoli eccezioni.
Ed è chiaro che se questo è il contesto, se i club calcistici in vari modi favoriscono e blandiscono le tifoserie violente, poi escono fuori personaggi come il romanista” Gastone”, che prima provoca e poi spara per uccidere con una pistola dalla matricola limata, o come “Genny la Carogna”, capo tifoseria napoletana, proveniente da una famiglia di camorra, che indossa una maglietta inneggiante ad un tifoso che ha ucciso un poliziotto.
Ma forse è anche il caso di fare una riflessione più generale sullo sport in sé. Una riflessione che raramente viene fatta, e che poniamo come stimolo al dibattito.
Poniamoci un problema di fondo: perché dovremmo competere per una qualsiasi cosa… per arrivare primi?
Primi in che? Che senso ha vincere su qualcun altro che perde. Che senso ha arrivare primi quando questo arrivare primi non è altro che far arrivare secondi o ultimi altri? Che senso ha vivere in una società che è ancora considerata divisa in vincitori (pochi) e vinti (tanti, ma chi se ne importa, va bene cosi…) ?
Chi è che arriva primo? Quale parte di noi fa di tutto per vincere uno scudetto, una medaglia d’oro, un giro ciclistico o una partita di calcetto… Il nostro lato egoico e predatorio o il nostro lato cosciente e spirituale?
Questo arrivare primi, questo competere per vincere è comunque qualcosa che non ha nulla a che fare con la coscienza, con lo spirito, la parte più elevata di un essere umano. La coscienza sa che non ha senso arrivare primi se tutti non arrivano primi con noi. Non ha senso correre per distaccare qualcuno nella vita. Ma si vince solo se tutti arrivano insieme ai vari traguardi della crescita in modo armonioso, amoroso privo di perdenti.
Voler vincere significa volere che qualcuno perda. E allora dovremmo domandarci quale parte di noi, della nostra anima, vuole vincere e si esalta per una vittoria su qualcun altro… Forse non è la parte più alta.
La parte più alta di noi, quella cosciente o spirituale, prova soddisfazione, si esalta veramente, quando sa di aver fatto qualcosa che è per il bene e la soddisfazione di tutti.
Quando non vince solo per se, per la propria squadra, la propria tribù, il proprio villaggio, il proprio partito, la propria nazione… ma per tutti.
Quando finalmente cominceremo ad amare anche gli altri – tutti gli altri – come noi stessi…
Forse, nell’età della crescita della coscienza, lo sport andrebbe ripensato profondamente su basi di armonia collaborativa e non competitiva.