Il Sale della Terra e la lezione della Sophia
di Paola Lo Sciuto
L’ultima opera di Wenders, Il sale della terra ormai nelle sale cinematografiche da mesi, racconta la vita di uno sguardo, un punto di vista molto particolare. Si tratta del fotografo brasiliano Sebastião Salgado, che dopo gli studi di economia e statistica, a partire dagli anni 70 comincia a voler raccontare attraverso la fotografia l’essere umano e il rapporto con i suoi simili, con la povertà e con la terra.
Questo monumentale documentario dedicato a Salgado, ci restituisce la profondità e la bellezza del suo sguardo , la capacità del fotografo di trasmettere la propria compassione per ciò che vede. Wenders raccontandolo riesce ad entrare nell’iconografia di Salgado tanto da utilizzare per le riprese gli stessi grand’angoli, lo stesso modo struggente di guardare il mondo.
Il sale della terra, è una co-regia con il figlio del grande fotografo Juliano Ribeiro Salgado. Racconta una incredibile avventura visiva attraverso una serie di progetti fotografici che durano anni, che mostrano il processo di studio e comprensione dell’uomo, come una vera missione: quella di essere testimone del genere umano, di volgere lo sguardo e prestare attenzione all’umanità. La sua testimonianza è una preghiera che dialoga con la carne, con le passioni, con la sopravvivenza, con la natura e con Dio.
In viaggio per più di cento paesi, Sebastião Salgado crea reportage di impianto umanitario e sociale. Dal 1973 lavora senza sosta, dedica mesi, se non addirittura anni, a sviluppare e approfondire i suoi progetti. Le tematiche che gli stanno a cuore sono l’impulso che lo sostengono senza cedimenti, anche nei momenti di grande fatica .
Nel 1973 realizza un reportage sulla siccità del Sahel, uno sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa. Nel 1974 la rivoluzione in Portogallo e la guerra coloniale in Angola e in Mozambico. Per sei lunghi anni, si dedica al progetto Other Americas documento straordinario sulla vita delle campagne dell’ America Latina. Salgado come lui stesso testimonia rimane impressionato da come gli uomini che vivono da quelle parti siano gli unici a vivere il tempo per come è.
Durante i sei anni successivi Salgado concepisce e realizza un progetto sul lavoro nei settori di base della produzione. Il risultato è la pubblicazione “La mano dell’uomo”(1993).
Dal 1993 al 1999 Salgado lavora sul tema delle migrazioni umane. Racconta il disagio degli esodi per paura della guerra. Vive tra i rifugiati in Congo fotografa cadaveri accatastati in Rwanda. la fuga di interi popoli, osservarli morire di stenti o di malattie in modo così massiccio, vedere padri seppellire i propri figli. Il fotografo testimonia per anni l’orrore e i genocidi in Africa. L’esperienza lo lascia profondamente segnato e depresso, quasi non avesse più la forza di andare avanti, tanto la follia umana lo aveva annichilito.
Tra le varie recensioni, nessuno sottolinea come fa invece Wenders nel suo documentario, che la vita di questo grandissimo testimone sia stata l’ esempio mirabile di come alla visione di tanta morte e devastazione si possa contrapporre la volontà umana di ricostruire.
Salgado non è mai stato da solo, la sua anima, la persona che stava a casa a ricevere le sue foto, ad impaginarle nei suoi libri, a progettare, a venderle ed a organizzare le grandi mostre, a crescere i figli di cui uno nato con un grave handicap era la sua metà femminile, la sua straordinaria compagna Lelia Wanick Salgado.
Lelia ha avuto la forza, caratteristica del divino femminile, di essere la Sophia, di essere la consapevolezza profonda, la vita, la vera capacità creatrice dell’azione del suo compagno .
Una particolare storia accompagna la vita di Sebastião Salgado, una storia che può essere un esempio per tutti noi.
Mentre Sebastião andava per il mondo a scattare le foto raccontando degli uomini che depauperavano la terra e si dedicavano al massacro. Il padre, grande proprietario terriero aveva fatto come tutti: per denaro aveva tagliato l’intera foresta pluviale cresciuta nei territori di cui era proprietario. Ma con il tempo, la sua terra brulla, diventava sempre più arida, gli animali della Fazenda morivano perché non avevano nulla da mangiare, nulla da bere poiché pian piano i pozzi si erano essiccati. Il padre, in modo inconsapevole, aveva ridotto la sua proprietà in un deserto. Lo stesso deserto di speranze per il genere umano che si era creato dentro l’anima di Sebastião. Nel momento della crisi lavorativa ed esistenziale del fotografo entra in gioco la grande forza del divino femminile: la compagna Lelia Wanick ha una idea formidabile: impegnarsi con amore per far rinascere ciò che era morto. Così convince il marito a ripiantare l’intera foresta per trovare in questo grandioso impegno di ricostruzione una meravigliosa e rinnovata vitalità.
Il genio di Lelia, è davvero il simbolo di tutte le forze generatricii del divino femminile che risiedono in noi sia maschi che femmine, e che possiamo mettere in campo quando le forze devastatrici e senza coscienza, ci dominano.
In definitiva insieme progettarono l’ISTITUTO TERRA, con lo scopo di ricreare, in Brasile, nei luoghi dell’infanzia del fotografo, la foresta pluviale cancellata da un miope egoismo .
«…Era ormai una terra bruciata; un territorio dove avrebbero potuto essere allevati decine di migliaia di capi di bestiame, ora era in grado di sostenerne appena qualche centinaia. Mia moglie Lélia (lei non è solo la curatrice delle mie esposizioni, dei miei libri, quella che di fatto progetta tutto questo, ma è la mia socia per tutto ciò che facciamo nella nostra vita) mi ha detto “Sebastião, visto che sostieni di essere nato in paradiso, perché non costruire – o ricostruire – veramente questo paradiso? Perché non ripristinare la foresta tropicale che una volta ricopriva questa superficie?”. Così, abbiamo deciso di provarci .»
( http://www.lucasavinophoto.com/lelia-wanick-salgado-una-grande-donna-dietro-un-grande-uomo/)
Lelia e Sebastião hanno piantato insieme agli amici un milione di piccoli alberelli che in soli 15 anni sono diventati rigogliosi e hanno dato non solo dignità al posto, ma è tornata l’acqua, sono tornati gli animali selvatici, è tornata la vita, la bellezza e la speranza.
La coppia ha reso reale il racconto allegorico de “L’uomo che piantava gli alberi” (titolo originale: L’homme qui plantait des arbres), conosciuto anche come La storia di Elzéard Bouffier di Jean Giono (1953).
La vita e la natura hanno restituito il nutrimento all’anima di Salgado che ha trovato di nuovo il desiderio di ricominciare a fotografare.
L’ ultimo suo incredibile lavoro si chiama Genesis: omaggio alla Terra e alle sue creature.
Wenders sa dove girare lo sguardo, capire il vero significato delle cose. Nel suo racconto ha voluto mostrare che la grandezza dell’uomo sta nell’ equilibrio tra l’azione maschile e la coscienza dell’anima del femminile che trova il senso e la giusta direzione in tutte le azioni . Per questo non gira mai da solo, ma tutte le sceneggiature, le idee, i suoi film, Wenders li condivide con la sua compagna.