di Claudio Tomaello
Diluvia da mesi, ormai, e noi stiamo costruendo un’arca.
O meglio, gli altri si danno da fare in mille modi, chi progettando, chi lavorando con le mani; io invece sono piuttosto impacciato. Non sono mai stato bravo con compassi e goniometri, né con seghe, martelli e chiodi: come strumento ho solo le mie parole.
“E allora usale!”, disse lei, mentre stavamo piallando un’asse.
Alzai la testa e la osservai perplesso, ma dal suo sguardo capii che non stava scherzando.
Respirai un po’ della sua forza gentile e la riposi come una carezza in un angolo del cuore.
Attorno a noi il rumore dei martelli si fece assordante e riprendemmo a lavorare.
Quella sera ritornai a casa presto, salii in soffitta, aprii il baule arrugginito e sorrisi: i miei cari vecchi libri sembravano felici di vedermi. Mentre li sfogliavo, mi lasciai accarezzare dal loro profumo.
Il mio sguardo si incagliò in alcune righe di Rainer Maria Rilke: grazie ad esse mi ricordai che le poesie sanno essere delle ottime bussole.
Forse noi siamo qui per dire: casa
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra,
al più: colonna, torre… ma per dire, comprendilo bene,
oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse,
nell’intimo,
mai intendevano d’essere.
Da allora faccio il doppio turno: di giorno piallando e di notte leggendo. E più mi appassiono all’uno, più miglioro nell’altro.
Finché una sera, mentre eravamo tutti attorno al fuoco, lei mi guardò e mi fece capire che era giunto il momento di dare il mio contributo alla costruzione dell’arca.
Io esitai, strinsi un lembo dei pantaloni con le mani, poi mi schiarii la voce e con tremore iniziai a intagliare queste parole nell’aria.
Il termine “arca” in ebraico biblico è “thebah”, che significa anche “parola”, “linguaggio”.
Per salvarci dal diluvio dobbiamo costruire un linguaggio nuovo, riscoprire il valore delle parole. Esse sono vestiti indossati dal Mondo Spirituale per mostrarsi a noi.
Non sono mai neutre ma, a seconda della nostra frequenza, possono dar luogo a nutrimento o malattia. Il vocabolo che nella lingua biblica significa “parola”, infatti, se vocalizzato in modo diverso designa i termini “pascolo” e “peste”. E sempre nel medesimo vocabolo, letto in termini geroglifici, si può anche vedere la “porta del figlio”: la parola, quindi, è la soglia attraverso cui il Figlio dell’Uomo può venire alla luce. Ma la sua nascita dipende da noi, dalla nostra libera scelta: apriremo quella porta o no?
L’arca la costruiamo anche con le parole che pronunciamo: dipenderà da noi se diverrà un amorevole pascolo verde o una gabbia di pestilenza.”
Quando terminai di parlare, gocce di sudore imperlavano la mia fronte.
Lo spazio tra di noi venne abitato dal silenzio. Io ero talmente emozionato che non ricordo cosa sia accaduto dopo. So solo che da quella volta, come per un tacito accordo, di giorno lavoriamo e di sera ci troviamo di fronte al fuoco a raccontare. E col tempo stiamo comprendendo che questi sono due momenti di un unico respiro.
Ieri le nubi erano particolarmente dense, ma alla sera ci ha pensato lei a colorare l’atmosfera. Ha trovato le parole per descrivere ciò che tutti sentiamo nel cuore: “Il Sole non è scomparso, ma non agisce senza di noi: ha scelto di sorgere nelle nostre parole creatrici e nelle nostre azioni amorevoli. E noi cosa faremo? Sapremo essere aurora?”.
Diluvia da mesi, ormai, e noi stiamo costruendo un’arca.
Tutti insieme, con Sole, Azioni e Parole.
Claudio Tomaello