Grecia: il crimine decisivo?

CIR Psyops Grecia

Grecia: il crimine decisivo?

di Solange Manfredi

Trovo quanto successo in questi giorni per quanto concerne la situazione greca di una gravità assoluta.

Le scelte sconsiderate fatte da tutti i partecipanti ai negoziati avranno i loro effetti, temo devastanti e contagiosi, che si protrarranno per lungo tempo.

Nel mio libro Psyops. 70 anni di operazioni di guerra psicologica in Italia mettevo in evidenza, tra le altre cose, proprio questo pericolo.

Dopo aver trattato, nel primo capitolo, dei principi fondamentali della guerra psicologica, nel secondo capitolo iniziavo la mia analisi storica proprio partendo dalla prima guerra mondiale e da quello che “sintetizzando il XX secolo e il secondo millennio, la Millennium Issue dell’Economist (23 dicembre 1999) ha definito “The final crime” (il crimine decisivo)”,[1] cioè il Trattato di Versailles.

Non a caso scelsi di iniziare la mia analisi dal Trattato di Versailles, come, non a caso, scelsi di concludere il mio libro evidenziando, nell’ultimo capitolo, i pericoli che corriamo oggi.

Vedevo, infatti, nella modalità di agire degli uomini ai vertici dell’unione europea le stesse pericolose debolezze che avevamo afflitto i “grandi” seduti a Versailles. Vedevo come si stessero compiendo gli stessi errori/orrori.

Stessi errori/orrori che ieri si sono confermati. Infatti, nel 1918, l’economista John Maynard Keynes, componente della delegazione ufficiale inglese alla conferenza di pace di Versailles, vedendo gli errori macroscopici che si stavano compiendo in quei negoziati, dopo aver cercato inutilmente di far ragionare gli uomini seduti al tavolo delle trattative, lasciò la conferenza e, in soli due mesi, denunciò in un libro la sua preoccupazione per quanto stava accadendo: “Il trattato non comprende alcuna clausola che miri alla rinascita economica dell’Europa ….Vi sono altri argomenti, che anche il più ottuso non può ignorare, contro una politica che tenda ad allargare e ad incoraggiare ancor più la rovina economica di grandi paesi…[2] Se noi miriamo deliberatamente all’impoverimento dell’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non tarderà”.[3]

krugman 1Oggi, purtroppo, pare che l’ottusità continui tanto da far scrivere al premio Nobel per l’Economia, Paul Krugman, nel suo blog sul New York Times – “queste condizioni vanno aldilà di una vendetta pura è la completa distruzione della sovranità nazionale e nessuna speranza di sollievo…Il progetto europeo è un progetto che ho sempre lodato e sostenuto e gli è stato appena inferto un colpo terribile, forse fatale. E qualunque cosa tu pensi di Syriza, o della Grecia, non sono stati i greci a farlo“.

Gli stessi errori/orrori, e gli stessi pericoli, che vanno ben al di là della semplice possibilità che il progetto europeo fallisca. Il rischio è che milioni di persone possano essere trascinate, da persone irresponsabili e ciniche, in un inferno.

Scrissi il libro Psyops, come evidenziavo nell’introduzione, nella speranza che, “evidenziati i principi di condizionamento della massa, sempre più persone possano sviluppare quella consapevolezza che permette di non cadere nell’inganno, nella tentazione di seguire la via più facile“.

Riporto qui i due capitoli del mio libro, in cui evidenzio questo pericoloso parallelismo tra ciò che successe a Versailles e ciò che sta succedendo oggi, con la stessa speranza.

“La storia[4] è il prodotto più pericoloso che la chimica dell’intelletto abbia mai elaborato… Fa sognare, inebria i popoli, genera loro falsi ricordi, ne esaspera i riflessi, ne alimenta le antiche piaghe, li tormenta nel riposo, li trascina al delirio di grandezza o a quello di persecuzione, e rende le nazioni amare e superbe, insopportabili e vane.” – Paul Valéry

La paura, la vera paura è un delirio furioso. Di tutte le pazzie di cui siamo capaci, è sicuramente la più crudele. Nulla eguaglia il suo slancio, nulla può sostenere il suo urto. L’ira, che le somiglia, non è che uno stato passeggero, una brusca dissipazione della forza d’animo. Per giunta è cieca. La paura, al contrario, una volta che se ne sia superata la prima angoscia, forma con l’odio uno dei composti psicologici più solidi che esistano. – Georges Bernanos

II. La prima guerra mondiale e The final crime

Le operazioni psicologiche in ambito militare non sono una novità. I primi scritti conosciuti sull’argomento risalgono al quinto secolo a. C. quando Sun Tzu, stratega militare cinese, evidenziò l’importanza di distruggere la volontà di combattere del nemico con sorprese, clamori, spargimento di notizie false, tradimenti e assassinii nelle alte sfere.[5]

Se in precedenza, però, le psyops venivano usate prevalentemente in battaglia, è solo con lo scoppio della prima guerra mondiale che tali operazioni trovano una diffusione così sistematica, capillare e continua che, protratta anche al di là del conflitto, giunge a modificare il tradizionale concetto di pace trasformandolo semplicemente in un periodo di guerra meno violento.

È in occasione della prima guerra totale,[6] infatti, che gli stati belligeranti si trovano davanti all’esigenza di coinvolgere nel conflitto la popolazione al completo.[7] E coinvolgere significa convincere, ottenere il consenso. Sino alla fine del 1700, infatti, esistevano imperi governati da re che avevano ricevuto il regno da un altro re o da “Dio” e non dalla volontà popolare.[8] Con la diffusione delle idee democratiche ed illuministe del 1800 la situazione muta radicalmente: al diritto divino del re si sostituisce il diritto divino delle folle.

Dal punto di vista politico, l’estensione formale della democrazia attribuisce a tutta la popolazione un nuovo diritto a conoscere e a esser persuasa di ciò che le si richiede. Prima alla massa si davano ordini. Oggi il potere ha la necessità di emozionarla e manipolarla per poterla convincere: è il processo che chiamiamo populismo.[9]

La conoscenza della psicologia delle folle diviene, quindi, la risorsa dell’uomo di Stato che vuole governare;[10] e gli psicologi, che sino a quel momento si erano occupati prevalentemente del singolo e delle sue devianze, iniziano a occuparsi della massa.

Gli scaffali dei centri militari – primo fra tutti quello dei servizi segreti – si riempiono di libri di psicologia comportamentale[11] i cui principi vengono applicati a specifiche operazioni militari e, il 13 aprile del 1917, gli Stati Uniti istituiscono la prima agenzia di propaganda di Stato.[12]

LA RIVOLUZIONE RUSSA

A gennaio del 1917 l’Impero russo, che da tre anni combatte a fianco di Inghilterra e Francia (Triplice Intesa), è stremato; le sue perdite, tra morti, feriti e prigionieri ammontano a più di sei milioni, e nelle città mancano viveri e combustibile. La situazione al fronte è disperata, i soldati disertano a decina di migliaia e, con operai e contadini, costituiscono spontaneamente dei comitati (Soviet).

Versailles1Lo Zar Nicola II, che dopo le prime sconfitte nel 1915 aveva assunto personalmente il comando dell’esercito, viene ritenuto il principale responsabile del disastro e delle sofferenze patite dal popolo russo e i Soviet, formatisi in tutta la nazione, ne chiedono con forza l’abdicazione ed invocano la costituzione di un governo provvisorio.

Gli Alleati osservano con preoccupazione la situazione venutasi a creare: se il fronte russo cedesse non solo un milione di tedeschi, ora impegnati su fronte orientale, potrebbero essere spostati ad occidente contro le truppe anglo-francesi ormai stanche, ma la Germania avrebbe accesso alle importanti risorse dell’Impero sovietico, tra cui il grano dell’Ucraina, il carbone del Donet e il petrolio del Caucaso.

Lo Zar, nel tentativo di arginare la protesta, concede ampie riforme e un’assemblea costituente ma, nel marzo del 1917 – dopo che a Pietrogrado (ora San Pietroburgo) una dimostrazione di protesta contro la mancanza di pane degenera in insurrezione armata appoggiata da soldati ammutinati – il Consiglio dei ministri decide di passare il potere ad un nuovo gabinetto costituito da personalità provenienti dalla Duma (la Camera bassa istituita nel 1906 e, fino ad allora, riunitasi pochissime volte).

Nicola II, rimasto isolato, è costretto ad abdicare. Si forma il primo governo provvisorio, con all’interno i socialisti dei Soviet che chiedono la pace, senza riparazioni ed annessioni, e spingono per dare inizio ad ampie riforme, tra cui l’esproprio delle terre in favore dei contadini.

Gli Stati Uniti, visto il precipitare della situazione in Europa, per tutelare i propri interessi, decidono di entrare in guerra a fianco della Triplice Intesa e, il 6 aprile 1917, dichiarano guerra alla Germania.[13]

Il presidente americano Woodrow Wilson – che eletto nel 1916 con lo slogan “He kept us out of war” ha bisogno di ottenere il consenso della popolazione americana per la maggior parte contraria a partecipare ad un conflitto che sente estraneo e lontano – il 13 aprile del 1917 istituisce il Committee on Public Information[14] (CPI), la prima agenzia di propaganda di Stato a cui viene affidato il compito di convincere gli americani che la guerra appena dichiarata è una guerra necessaria e giusta: «una guerra per porre fine a tutte le guerre e rendere il mondo sicuro per la democrazia».[15]

Versailles2Il CPI, per suscitare orrore e indignazione nella popolazione, rievoca l’incidente del transatlantico Lusitania[16] e diffonde su tutto il territorio volantini, articoli, poster e pellicole cinematografiche in cui sono mostrate atrocità commesse dai soldati tedeschi nei confronti di donne e bambini che, terminata la guerra, non troveranno alcun riscontro.[17]

La propaganda antitedesca è così efficace che, in soli sei mesi, il popolo americano si ritrova non solo ad avere un nemico, ma ad odiarlo e a disumanizzarlo. Nascono decine di organizzazioni patriottiche e la furia dilaga così rapidamente che, in breve, nel paese viene rifiutato tutto ciò che arriva dalla Germania, sino a giungere al punto di impedire all’orchestra sinfonica di Boston di suonare Bach.[18]

La guerra psicologica mostra immediatamente la sua infinita potenza, ma non ancora, purtroppo, la sua estrema pericolosità, pur chiaramente evidenziata da Le Bon nel suo trattato:

Le folle non si lasciano influenzare dai ragionamenti… I trascinatori di folle, il più delle volte, non sono intellettuali ma uomini d’azione… Appartengono specialmente a quei nevrotici, a quegli eccitati, a quei semi-alienati che rasentano la pazzia. Per quanto assurda sia l’idea che difendono o lo scopo che vogliono raggiungere, tutti i ragionamenti si smussano contro la loro ferma convinzione… Spesso sono retori sottili, che fanno il loro interesse personale e cercano di persuadere lusingando bassi istinti.[19]

Intanto, in Russia, la situazione è disperata: la popolazione è alla fame ed i morti sono ormai milioni.

Lo Stato Maggiore tedesco, consapevole della contrarietà di Lenin al conflitto – e nella speranza che il leader bolscevico, rientrato in patria dall’esilio in Svizzera, possa condurre la Russa fuori dalla guerra permettendo alle truppe tedesche di concentrare i loro sforzi sul fronte occidentale – gli mette a disposizione del denaro ed un vagone piombato per tornare a casa. Rientrato a Pietrogrado, Lenin convince i dirigenti bolscevichi a prendere le distanze dal governo provvisorio, rifiutare qualsiasi compromesso e porre fine allo sforzo bellico.

È la rivoluzione.

Ad ottobre i bolscevichi prendono il potere; a dicembre viene firmato l’armistizio con la Germania e, il 3 marzo 1918 con il Trattato di Brest-Litovsk, la Russia esce dalla prima guerra mondiale.

Per gli angloamericani il comunismo, che pone un nuovo modello di società diverso e «Altro» rispetto al loro, è più pericoloso della guerra stessa,[20] e la propaganda da antitedesca si trasforma in antibolscevica ancora prima della fine del conflitto (nel 1918, Lenin ed i suoi seguaci vengono indicati dalla stampa come: «i nostri più accaniti nemici»; «animali da preda»; «squartatori»; «criminali assetati di sangue»; «feccia umana»; ecc.).[21]

La prima guerra mondiale, intanto, ha già fatto milioni di morti e le nazioni sono stremate. In questo contesto, il presidente americano Wilson si fa portatore di una proposta di pace: i Fourteen Points.[22]

L’11 novembre 1918, con la firma della Germania – ultima degli imperi centrali ad accettare l’armistizio, non perché sconfitta militarmente, il suo esercito è a pochi km da Parigi, ma perché stanca e disposta alla pace – la guerra finisce.

IL TRATTATO DI VERSAILLES

VersaillesAl termine del conflitto – a Parigi, Londra e Roma – contadini ed operai scendono per le strade a manifestare per la pace e la democrazia. A Berlino ed Amburgo si costituiscono i Soviet, e scoppia la rivoluzione. Guglielmo II rinuncia al trono e nasce la Repubblica di Weimar, mentre la neonata Repubblica sovietica di Monaco di Baviera viene sbaragliata da uomini appartenenti alla Freikorps[23] appoggiati dall’esercito regolare.

La situazione venutasi a creare preoccupa. Il timore che tra le popolazioni europee sfinite dalla guerra il comunismo possa dilagare rapidamente s’impossessa dei negoziati di pace, con il risultato che i Fourteen Points – sulla base dei quali gli imperi centrali avevano deposto le armi, e che nelle intenzioni doveva aiutare gli stati europei a ristabilire un nuovo equilibrio capace di garantire un futuro di stabilità, libertà e democrazia al mondo – vengono completamente stravolti nel corso della conferenza di Parigi.

La fretta di concludere un accordo che scongiuri il pericolo che la rivoluzione russa possa contagiare l’Europa, e le debolezze[24] degli uomini seduti al tavolo dei negoziati – più attenti a soddisfare la loro sete di gloria e di potere, che non a concludere una pace giusta – trasformano il Trattato di Versailles: «in un documento cieco e vendicativo degno dei più oscuri concetti medioevali di punizione».[25]

Su insistenza francese, la Germania viene indicata espressamente nel Trattato[26] come unica responsabile dello scoppio della guerra:

Per la prima volta nella storia, ai popoli vinti non fu imposta la condizione di sconfitti bensì quella di colpevoli.[27]

La follia di tale pretesa, di voler insistere sulla “colpa” della guerra, viene evidenziata subito da più parti,[28] purtroppo senza successo:

Una nazione perdona una lesione dei propri interessi, non l’offesa al proprio onore, meno che mai quando questa è perpetrata con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla luce dopo decenni attizza nuovamente l’indegno accanimento, l’odio e lo sdegno, mentre la guerra, una volta finita, dovrebbe esser sepolta almeno sul piano morale.[29]

Alla Germania, contrariamente a quanto previsto dall’armistizio, vengono imposte esorbitanti riparazioni, pur riconoscendo che le risorse reali non le consentono di adempiere: «I Governi alleati e associati riconoscono che le risorse della Germania non sono sufficienti – tenuto conto della diminuzione permanente delle sue risorse che risulta dalle altre disposizioni del presente Trattato – per assicurare completa riparazione di tutte queste perdite e di tutti questi danni. I Governi alleati ed associati esigono, tuttavia, e la Germania ne prende impegno, che siano riparati tutti i danni causati alla popolazione civile di ciascuna delle Potenze alleate e associate ed ai suoi beni durante il periodo in cui essa Potenza è stata in guerra con la Germania per l’aggressione suddetta per terra, per mare e per aria, ed in linea generale tutti i danni definiti nell’allegato 1… L’ammontare di queste somme sarà determinata dalla Commissione delle Riparazioni».[30]

I poteri concessi alla Commissione delle Riparazioni – i cui membri godono dell’immunità diplomatica[31] e le cui deliberazioni sono segrete[32] – non solo sono amplissimi[33] e di una genericità imbarazzante,[34] ma comportano anche che la sovranità della Germania viene di fatto sospesa e trasferita a questa “Commissione” che, formata da stranieri e con sede permanente a Parigi: «… ha nella stessa Germania poteri incomparabilmente più grandi di quanti non ne abbia mai posseduti lo stesso imperatore».[35]

L’economista John Maynard Keynes, componente della delegazione ufficiale inglese alla conferenza di pace, cerca di riportare un po’ di ragionevolezza al tavolo delle trattative, purtroppo senza successo.

La nuova e segreta guerra contro il bolscevismo è già cominciata, e i rappresentanti delle nazioni democratiche del globo – Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia – si sono fatti carico di combatterla: «La clausola centrale maggiormente vincolante del trattato di pace e della Lega delle Nazioni è quella non scritta con la quale i governi delle Grandi Potenze sono riuniti allo scopo di reprimere la Russia Sovietica… naturalmente tale patto per la repressione della Russia Sovietica non è stato scritto nel Testo del Trattato; si può dire che esso è la pergamena sul quale il Trattato è stato scritto».[36]

Keynes, inascoltato, rassegna le dimissioni e, nel solo arco di due mesi, denuncia in un libro tutta la sua preoccupazione per un trattato di pace che, nei fatti, si è trasformato in un baratro politico ed economico per l’Europa:

Il trattato non comprende alcuna clausola che miri alla rinascita economica dell’Europa, nulla che possa trasformare in buoni vicini gli imperi centrali sconfitti, nulla che valga a consolidare i nuovi stati dell’Europa…[37] Se noi contrastiamo passo per passo ogni mezzo per il quale la Germania o la Russia possono riacquistare il loro benessere materiale, solo perché nutriamo un odio nazionale di razza o politico per le loro popolazioni o per i loro governi, dobbiamo anche prepararci a fronteggiare le conseguenze di tale sentimento…Vi sono altri argomenti, che anche il più ottuso non può ignorare, contro una politica che tenda ad allargare e ad incoraggiare ancor più la rovina economica di grandi paesi…[38] Se noi miriamo deliberatamente all’impoverimento dell’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non tarderà.[39]

Ma nessun argomento, purtroppo, viene recepito: fretta e desiderio vincono sui fatti e sulla ragione; ed inizia la discesa verso l’inferno:

Quell’umiliazione dei vinti, che il cinismo dei vincitori aveva inventato a Versailles, cominciò a esser percepita come logica conclusione di piani ostili congegnati lontano nel tempo ma poi assemblati molto più di recente nel cuore stesso degli Imperi sconfitti. Così i perdenti si andavano trasformando in vittime.[40]

L’idea di una congiura orchestrata dalle tre grandi – Inghilterra, Francia e Stati Uniti – per distruggere la Germania si diffonde nella massa:

In Germania la classe politica che ha firmato l’armistizio viene accusata di aver venduto la patria e sorge il mito della “nazione tradita”, poiché l’esercito non si è arreso, non è stato formalmente sconfitto.[41]

Rapidamente, grazie anche ad una stampa irresponsabile, feroce e populista che attinge alla forza evocativa del mito tedesco di Sigfrido,[42] il fronte interno su un complotto pluto-giudaico-massonico[43] inizia il suo delirante contagio.[44]

Ma il Trattato di Versailles non è il frutto di un complotto, è “solo” il risultato dell’agire di uomini deboli, che hanno fretta di raggiungere velocemente una pace che permetta loro sia di soddisfare le personali esigenze elettorali sia di «assoldare la Germania come cane da guardia degli alleati contro la rivoluzione sovietica».[45]

Per raggiungere questo risultato, i rappresentanti dei paesi vincitori – sotto la pressione dell’opinione pubblica che chiede una punizione esemplare per i vinti, e schiavi del consenso e del potere che ne deriva – con una scelta assolutamente sconsiderata pensano, in nome della peggiore propaganda, ad un escamotage che si trasformerà in tragedia.

Grazie all’aiuto di abili avvocati, nel Trattato di Versailles vengono apposte clausole che, se da un lato impegnano la Germania con esorbitanti riparazioni, dall’altro sono stilate in modo ambiguo (non si specifica neanche l’importo) perché non vi è alcuna intenzione di farle rispettare realmente.[46]

In trattati successivi, infatti, le richieste alla Germania verranno notevolmente ridotte. Purtroppo, però, il danno – soprattutto a livello psicologico prima ancora che economico – ormai è fatto; ed Hitler, attraverso un’abile propaganda, utilizzerà proprio il mito della “nazione tradita” dal Trattato di Versailles per giungere al potere: «Quante cose si potevano fare con il trattato di Versailles!… Utilizzando per una geniale propaganda le sadiche crudeltà di quel trattato, si poteva mutare in indignazione l’indifferenza di un popolo e l’indignazione in splendido coraggio. Si poteva incidere ciascun punto del trattato nel cervello e nel sentimento del popolo tedesco affinché in sessanta milioni di teste maschili e femminili l’odio e la vergogna comuni divampassero in un solo mare di fiamme, dal cui fuoco prorompesse una volontà dura come l’acciaio e il grido: “Ridateci le armi!”».[47]

L’Europa esce, così, dal primo conflitto mondiale non solo distrutta, ma anche irrimediabilmente divisa e persa.

Si è chiusa un’epoca di straordinario progresso economico per il vecchio continente, un periodo a noi poco noto perché poco raccontato, quando addirittura non mistificato, ma che qui vale la pena di accennare attraverso i ricordi di due grandi protagonisti del tempo.

Keynes ricorda così il periodo precedente il conflitto:

Quale straordinario episodio nel progresso economico dell’umanità fu quell’era che si chiuse nell’agosto del 1914!
La più gran parte della popolazione lavorava, è vero, intensamente, pur godendo di uno standard di vita basso… Era tuttavia possibile, per ogni uomo dotato di capacità o di carattere superiore alla media, di salire fra le classi medie o fra le classi alte, alle quali la vita offriva, ad un basso costo e con minor possibile sforzo, comodità, agi, divertimenti in misura superiore a quella goduta dai più ricchi e più potenti monarchi dei tempi passati.
Un londinese poteva ordinare per telefono, sorbendo in letto la mattutina tazza di tè, i più disparati prodotti esistenti al mondo, in quella quantità che meglio gli aggradava, ed attendersene ragionevolmente la pronta consegna alla porta stessa di casa; egli poteva, nello stesso momento e con lo stesso mezzo, arrischiare la sua ricchezza nelle risorse naturali o nelle nuove intraprese in ogni angolo del mondo…
Egli poteva assicurarsi, se ne avesse avuto il desiderio, comodi mezzi di trasporto a buon mercato, verso qualsiasi clima o paese, senza passaporto o altre formalità; poteva mandare il suo domestico alla vicina banca per rifornirsi di prezioso metallo, in quelle quantità che gli apparisse conveniente, e andare in paesi esteri senza conoscerne la religione, la lingua, i costumi, portando con sé la ricchezza coniata; la minima intrusione o il minimo ostacolo lo avrebbero assai contrariato e sorpreso. Ma, cosa più importante fra tutte, egli considerava questo stato di cose come normale, del tutto certo e permanente, salvo che nella direzione di un ulteriore incremento, e ogni deviazione gli appariva aberrante, scandalosa, da sfuggirsi.
I progetti, la politica del militarismo e dell’imperialismo, le rivalità di razze e di cultura, il monopolio, le restrizioni, le esclusioni – che facevano parte del serpente in questo paradiso terrestre – non erano altro per lui che storielle del suo giornale quotidiano. Pareva quasi non esercitassero alcuna influenza sul corso ordinario della vita economica e sociale, la cui internazionalizzazione era praticamente quasi completa.[48]

Versailles3Anche Stefan Zweg, nel suo libro già dal titolo straordinario – Il mondo di ieri. I ricordi di un europeo – ci racconta di un vecchio continente forte e cosmopolita; dell’Europa, prima che venisse distrutta dal nazionalismo:

Nel periodo prebellico ho conosciuto il grado e la forma più alta della libertà individuale… ogni cittadino veniva educato ad essere supernazionale e cosmopolita, parlava più lingue e poteva passare agevolmente dall’una all’altra…
L’odio da uomo ad uomo, da paese a paese non balzava fuori ogni giorno da ogni giornale…
La tolleranza non veniva come oggi disprezzata e ritenuta debolezza, ma esaltata quale energia morale…
Nei migliori caffè viennesi c’erano tutte le gazzette della città e non queste soltanto, ma quelle della Germania intera, nonché le francesi, le inglese, le italiane e le americane, e inoltre tutte le riviste letterarie ed artistiche di qualche importanza…
Viaggiavamo senza passaporti e senza permessi dove ci piaceva, nessuno ti chiedeva le idee, l’origine, la razza o la religione…
Noi che ancora abbiam conosciuto il mondo della libertà individuale, sappiamo e possiamo testimoniare che l’Europa di un tempo si compiaceva del suo multicolore caleidoscopio… la tecnica aveva accelerato il ritmo della vita, le scoperte scientifiche inorgoglivano lo spirito delle generazioni… cominciava un’ascesa quasi contemporaneamente sensibile in tutte le nazioni della nostra Europa… le strade più ampie e lussuose, più imponenti gli edifici pubblici, più eleganti le vetrine.
Da mille indizi si sentiva che l’agiatezza cresceva e si diffondeva… certe comodità, come la stanza da bagno o il telefono, che erano state privilegio di una cerchia ristretta, si diffusero tra la piccola borghesia, mentre dal basso, da quando eran diminuite le ore di lavoro, saliva il proletariato partecipando alle piccole gioie e ai piccoli agi della vita.
Mai l’Europa fu più forte, più ricca, più bella, mai più fervidamente credette in un mondo ancora migliore… mentre prima solo pochi privilegiati erano stati all’estero, ora anche gli impiegati di banca ed i piccoli commercianti si recavano in Francia ed in Italia. Il mondo era diventato non solo più bello, ma più libero…
Era mutato il ritmo del mondo.
Quante cose accadevano mai in un solo anno. Una scoperta, una invenzione succedeva all’altra e questa a sua volta in un attimo diveniva patrimonio comune, giacché finalmente le nazioni avevano sentimenti comuni quando si trattava di comuni interessi… un belga non rimaneva indifferente ad una catastrofe tedesca perché europeo… stava per la prima volta formandosi un senso di solidarietà europea, una coscienza nazionale europea…
Io compiango tutti quelli che non hanno veduto l’Europa in quegli anni di fede europea.[49]

Questo periodo, questo straordinario «mondo di ieri», si chiude definitivamente e drammaticamente con la prima guerra mondiale e, dopo il Trattato di Versailles, si apre un secolo di genocidi:

Sintetizzando il XX secolo e il secondo millennio, la Millennium Issue dell’Economist (23 dicembre 1999) ha chiamato il Trattato di Versailles “The final crime” (il crimine decisivo).[50]

Il responso del passato è sempre un responso oracolare: solo come architetti del futuro, come sapienti del presente, voi lo capirete… Per il fatto di guardare avanti, che vi prefiggete una grande meta, voi riuscirete a dominare al contempo quel rigoroso impulso analitico che ora vi devasta il presente e rende quasi impossibile ogni calma, ogni pacifico crescere e maturare. – Friedrich Nietzsche

È tutt’altro che certo che la Storia si ripeta sempre allo stesso modo: quel che è certo è che si ripete sempre entro certi confini che potremmo definire «principali»… Gli avvenimenti del passato e quelli del presente si danno mutuo sostegno… per la propria reciproca comprensione. – Vilfredo Pareto

La violenza può divampare in tempi paurosamente brevi. Lenta e faticosissima è invece l’uscita dalle intossicazioni collettive che può spargere. Come pure graduali, faticose ed in buona parte individuali sono le opere di prevenzione cui siamo chiamati a contribuire. – Luigi Zoja

XVIII. Il pericolo

I tempi che giungono sono senza precedenti. Si avvicinano più rapidamente e siamo coscienti di essere noi a causarli. I loro pericoli e le loro speranze sono opera nostra. Il futuro è diviso: da una parte sta la distruzione, dall’altra una vita migliore. Tutte e due queste tendenze sono in azione, nel mondo ed in noi.
Elias Canetti

L’Europa Unita è, e resta, una «Grande Opera».

Un nuovo ordine, che serva a regolare i conflitti e distribuire equamente le ricchezze perché non si debbano più ripetere gli orrori e le stragi del passato, è ciò a cui ogni uomo ragionevole dovrebbe guardare con favore e speranza.

Oggi, però, si sta compiendo nuovamente l’errore del 1918 dove, uomini incompleti che avevano fretta, trasformarono un sogno – un nuovo ordine capace di garantire un futuro di pace, libertà e democrazia al mondo – in un incubo: «in un documento cieco e vendicativo degno dei più oscuri concetti medioevali di punizione»,[51] facendo precipitare la popolazione nella rabbia e nella disperazione.

A seguito delle condizioni inique imposte dal Trattato di Versailles una feroce propaganda diffuse nella popolazione tedesca il mito della «nazione tradita» e «pugnalata alle spalle» da governanti che avevano veduto la patria e trasferito la sovranità ad una commissione extraterritoriale ed irresponsabile.

La situazione della Germania venne ulteriormente aggravata dal crollo della borsa del 1929, tappa finale di un liberismo selvaggio[52] che aveva trasformato: «ogni manifestazione vitale… in una sorta di parodia dell’incubo contabile. Invece di utilizzare l’immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, si creano i bassi fondi; e si pensò che fosse giusto e ragionevole farlo perché questi, secondo il criterio dell’impresa privata, «fruttavano», mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, si pensava, un atto di follia che avrebbe, nell’imbecille linguaggio finanziario, “ipotecato il futuro”. Ma nessuno può credere oggi che l’edificazione di grandi e belle opere possa impoverire il futuro,[53] a meno che non sia ossessionato dalle false ideologie tratte da una astratta mentalità contabile… È la concezione del Cancelliere dello Scacchiere (Ministro dell’Economia) come presidente di una sorta di società per azioni che deve essere abbandonata».[54]

La popolazione spaventata, senza denaro o lavoro, accumulava rabbia, frustrazione e disperazione che Hitler, con un abile propaganda, ed utilizzando le regole di psicologia delle masse,[55] seppe far fruttare per giungere al potere: «Hitler ha saputo approfittare della situazione di crisi in cui il paese era sprofondato, le classi economiche su cui ha concentrato la sua propaganda sono state: contadini, disoccupati e classe media».[56]

Come abbiamo visto nel secondo capitolo, Hitler giustificò le guerre perché le risorse prime non erano sufficienti per permettere lo sviluppo della grande Germania, e al popolo indicò un nemico – gli ebrei – accusati di togliere lavoro e risorse ai tedeschi, di vivere alle loro spalle:

Una delle tematiche più utilizzate per ingenerare terrore, dopo aver individuato l’Altro, è la crescita demografica. Questo «Altro» viene fatto percepire come troppo numeroso, che tende a moltiplicarsi a proliferare e potrebbe numericamente sommergerci… Sullo sfondo di una crescita demografica reale o immaginaria, si costituisce così una sorta di fantasma della sparizione, che coglie un gruppo che si percepisce come soffocato dalla presenza dell’Altro, che sta per contaminare il corpo del popolo sano. È un procedimento che conosciamo molto bene: «Gli ebrei sono dappertutto; vogliono dominare il mondo e portarci alla perdizione». E allora è necessario prendere delle misure radicali e difenderci contro queste creature vili e perverse.[57]

Versailles4Oggi, come ieri, una feroce propaganda sta utilizzando gli stessi argomenti. Gli ebrei di ieri sono gli immigrati di oggi;[58] la mancanza di risorse, che ieri venne utilizzata per giustificare la conquista di nuovi territori, oggi pare avere un orizzonte decisamente più ampio e terribile: «Siamo troppi sulla terra»; mentre il delirio paranoide di Hitler pare aver contagiato la nazione più forte al mondo ed i suoi alleati.

Ieri come oggi insigni economisti hanno indicato gli errori del progetto ed avvertito dei pericoli di imporre agli stati regole economiche sbagliate, ma la fretta ed il desiderio, ancora una volta, hanno vinto sulla ragione:

Ma c’è un limite al desiderio che, superato, porta all’autodistruzione.[59]

Ancora una volta alcuni uomini, dominati da un’unica idea sorda alla complessità umana – che l’unione nel raggiungere l’obiettivo ha reso, da un lato più forti nell’agire, dall’altro più deboli nella ragione – hanno anteposto l’intesa all’accordo, l’idea alla modalità di realizzazione. Convinti delle proprie doti, della bontà del progetto e rinunciando ai fatti, hanno peccato di superbia e vanità credendo di poter imporre la loro ideologia politicamente corretta.

Troppo semplice è sentirsi nel giusto. Gli dèi quando vogliono annientare un uomo, cominciano a fargli perdere la misura.[60]

Dopo gli errori commessi a Versailles ci vollero milioni di morti perché la storia ci riportasse alla realtà e alla ragione. Oggi sono stati commessi nuovamente gravi errori, ed il rischio che le stesse dinamiche psicologiche di ieri possano riproporsi oggi è alto.

Il pericolo è che la situazione, oggi come ieri, possa precipitare perché sfruttata da: «paranoici di successo, che mentre strepitano per l’onore nazionale in realtà pensano alla loro carriera».[61]
Uomini che, per creare quel sentimento di identità ed appartenenza[62] necessario a fargli raggiungere posizioni di potere, sfruttando una debolezza che ci è comune («la tentazione di rifiutare le nostre responsabilità e di attribuire il male agli altri…Per quanto debole, per quanto nascosta, essa esiste in ognuno»[63]) possono: «…trasformare l’angoscia collettiva, che si è più o meno diffusa in tutta la popolazione, in un sentimento di paura intensa nei confronti di un nemico di cui avranno dipinto la pericolosità»[64] e, così, scatenare una paranoia collettiva.[65]

Versailles5Il meccanismo messo in atto da questi fanatici irresponsabili[66] è sempre lo stesso: «È sempre dal caos che essi traggono la propria legittimità di protettori del «Noi» e tutti fanno leva sulle stesse corde psico-affettive (paura-risentimenti-frustrazione)».[67]

Una volta individuato e/o creato il «nemico», questi folli chiamano alla violenza pubblica come legittima difesa nei confronti di coloro che sono designati come responsabili della crisi («Non abbiamo scelta, – dice – siamo costretti a difenderci contro questa gente. È una questione di identità: ne va della nostra sopravvivenza») e sviluppano nei loro confronti un linguaggio e degli atteggiamenti che mirano a svalutarli come esseri umani:[68] «…Quando un leader mosso da tali intenzioni accede alle più alte responsabilità dello Stato una tappa cruciale è superata, si ha legittimazione politica di quello che non era altro che un discorso di protesta (recuperando le paure e le frustrazioni sociali) e che diventa ormai strategia di governo. Giunti al potere sono convinti di avere una vocazione. Si attribuiscono un aspetto di profeti obbligati a compiere ciò che hanno annunciato»[69] e, per la popolazione, inizia la “discesa verso l’inferno”.

Sciocchi idealisti, poveri vanitosi, filosofi da bottega o da studio legale, uomini deboli ed incompleti che ritengono di poter esistere, di poter essere, solo nella diversità, nella contrapposizione, esaltati dal vedere che con le loro parole mettono in moto il popolo, possono inconsapevolmente rendersi complici di questa follia: «Chi siamo noi? Noi siamo i nemici degli altri. L’esistenza del nemico, dunque, crea identità. Un’identità il più delle volte casuale o contingente, tuttavia necessaria alla politica per prendere forma e alla natura umana per dispiegarsi…il nemico ti obbliga a definirti in negativo. Io, per esempio, se fossi vissuto in una fase storica diversa, mi sarei certamente ritrovato a sinistra. O meglio: comunista… le assicuro che ci mancò poco che giovanissimo mi iscrivessi davvero al PCI».[70]

Il rischio che ciò possa nuovamente accadere, vista la crisi in corso, è concreto, e da più parti viene denunciato.[71]

Lo psicoterapeuta Luigi Zoja ha dato alle stampa un saggio, Paranoia. La follia che fa la storia, sul pericolo, cui tutti siamo soggetti, che una propaganda irresponsabile possa scatenare una paranoia collettiva poi difficile da arginare e controllare.

Anche Umberto Eco ha scritto un romanzo, Il cimitero di Praga, feroce denuncia sull’uso degli stereotipi per seminare odio, ipotizzare congiure e complotti, per costruire un nemico:

Abbiamo sempre bisogno di qualcuno da odiare. Perché è molto difficile costruirsi una identità. È difficile, richiede consapevolezza intellettuale, coraggio ed eroismo. Quindi il poveraccio deve costruirsi una identità collettiva e falsa intorno ad un gagliardetto, intorno ad una bandiera, intorno ad un odio.[72]

Oltre a ciò, come ci ricorda il generale Fabio Mini:[73]

C’è gente non necessariamente pazza o idiota che ha bisogno di usare violenza sugli altri esseri umani e sulle cose terrene per dimostrare a se stessa di essere viva[74] …sono rari gli uomini che confessano il piacere della guerra, ma ce ne sono tanti, troppi.
È invece più facile trovare coloro che simulano buoni sentimenti, ma soddisfano il gusto segreto per la guerra ricorrendo alla retorica, benedicendo le proprie armi e lanciando anatemi contro quelle altrui, appellandosi ai codici di guerra d’onore, alla patria e al presunto dovere di chi si ritiene superiore per razza o missione divina.[75]

Versailles6Come, solo per citare un esempio, Churchill che, pur riconoscendo il «Male» che albergava in lui:

Credo di meritarmi una maledizione, perché amo questa guerra.
So che sta sconvolgendo, distruggendo la vita di migliaia di persone in ogni momento, tuttavia non posso farci niente: ne godo ogni secondo.[76]

si rivolgeva alla popolazione in modo ben diverso: «Vorrei dire alla Camera, come ho detto a coloro che hanno accettato di far parte di questo Governo:”non ho altro da offrirvi che sangue, fatica, lacrime e sudore”. Abbiamo di fronte a noi un cimitero dei più penosi. Abbiamo di fronte a noi molti, molti lunghi mesi di lotta e di sofferenza. Se chiedete quale sia la nostra politica risponderò: di muover guerra, per terra, mare e aria, con tutto il nostro potere e con tutta la forza che Dio ci dà, di muover guerra contro una mostruosa tirannia, mai superata nell’oscuro deplorevole elenco dei delitti umani. Questa è la nostra politica. Se chiedete quale sia il nostro obiettivo vi rispondo con una parola: la vittoria, la vittoria ad ogni costo, la vittoria malgrado ogni terrore, la vittoria per quanto lunga ed aspra possa essere la via; perché senza vittoria non vi è sopravvivenza… Non possiamo vacillare o fallire. Andremo avanti sino alla fine.
Combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e gli oceani; combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria. Difenderemo la nostra isola qualunque possa esserne il costo. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sui luoghi di sbarco, nei campi, nelle strade e nelle montagne. Non ci arrenderemo mai».[77]

La propaganda ci fa credere che: «In guerra andiamo per far cessare tutte le guerre e i nostri modernissimi battaglioni sono inviati negli altri paesi in missioni di pace».[78] Ma la verità è che ogni volta che vengono aperti gli spazi dell’odio e della violenza,[79] ogni condotta può offrire al prossimo un motivo sufficiente per sparare.[80] E quando si inizia ad uccidere, quando si entra nel delirio paranoico, sono irrilevanti le motivazioni ideologiche e le grandi finalità della guerra perché si sviluppa una totale indifferenza:

– verso i motivi: «Papà, ora sono quanto mai deciso a fare tutto il possibile per far sparire questi brutti bastardi della faccia della terra. Ho ancora molto tempo davanti a me, ed Dio aiuti chiunque mi capiti, uomo, donna o bambino. La distruzione totale e definitiva è l’unico modo di relazionarsi con queste bestie. Non avrei mai pensato di essere capace di un odio simile a quello che provo ora»;[81]

– e verso gli obiettivi contro cui esercitare la violenza: «La mia squadra aveva l’ordine di sparare su tutto ciò che non fosse obiettivo militare. Abbiamo ammazzato donne e bambini sui passeggini»;[82] «Sganciare bombe è diventato un bisogno. Ti stuzzica proprio, è una bella sensazione. E quasi bello come ammazzare qualcuno»;[83] «Provo una gioia ed una esaltazione terribili alla vista, al suono, al gusto, all’odore di tutta quella distruzione».[84]

E se la soluzione della crisi mondiale venutasi a creare è demandata ad esperti del settore, c’è, però, come evidenza lo psicoanalista Luigi Zoja:

…un compito che è più nostro e più difficile.[85]

Infatti, nonostante si sia messo in evidenza nel corso del saggio la grande potenza della guerra psicologica, si cadrebbe nell’errore appena denunciato se si pensasse a noi come semplici marionette, come soggetti sempre e solo agiti da fattori esterni.

È vero che una volta che la violenza paranoica è dilagata restarne immuni è cosa assai difficile, perché: «La passione collettiva è un impulso al crimine e alla menzogna infinitamente più potente di qualunque passione individuale. In questo caso gli impulsi nocivi, lungi dal neutralizzarsi, si innalzano vicendevolmente all’ennesima potenza. La pressione è quasi irresistibile, tranne che per i santi autentici».[86]

Ciò che, però, noi possiamo fare è quello di impedire a leader paranoici, sempre presenti in ogni epoca, di giungere al potere e trascinarci in una «marcia della follia».[87]
Sta a noi, dunque, conosciuti i meccanismi di condizionamento, evitare di venire ancora una volta trascinati nel sospetto, nell’odio e nella violenza – sentimenti che, come abbiano visto, possono venire facilmente manipolati e strumentalizzati – perché:

Esiste sempre una soglia, superata la quale va preso atto che il nostro stesso agire, e non solo quello altrui, ci minaccia.[88]

E se è vero che «gli atteggiamenti generosi o pacifici non si riproducono per contagio psichico; l’odio e la crudeltà sì»;[89] è anche vero che:

L’umanità, la giustizia, il rispetto hanno un forte potere di emulazione. Il rispetto trascina rispetto, come l’umiliazione trascina altra umiliazione…
Certo, non c’è legge che possa impedire le nefandezze del delirio, ma il recupero dell’umanità e la tolleranza possono prevenire la nascita dell’odio, che è il primo passo verso il delirio. E possono impedire il contagio del delirio stesso.
C’è infine da considerare che i destinatari principali del nostro rispetto siamo noi stessi. Quand’anche il recupero di umanità e coscienza, di politica e tolleranza non impedisse la violenza del delirio e le nefandezze della follia, avrebbe il grande merito di restituire agli uomini che devono combattere tali deliri il rispetto di se stessi. Non è poco.[90]

Articolo di Solange Manfredi, contenente estratti dal suo libro PSYOPS

Fonte: http://solangemanfredi.blogspot.it/

[1] Zoja, 2011, p. 179.
[2] Ibidem, pp. 199 – 200.
[3] Ibidem, pg. 184.
[4] Qui intesa nel senso di “memoria storica”.
[5] Sun Tzu, “L’arte della guerra”, Mondadori, Milano, 2003.
[6] Luigi Zoja, Contro Ismene, Bollati Boringhieri, maggio 2009, pg. 77: «La guerra del XX secolo ha moltiplicato velocemente la capacità di uccidere non solo per la ingigantita capacità tecnologica, ma anche per quella propaganda dell’odio e delle conseguenti psicopatie di massa. Si dovrebbe parlare di guerra totale non solo perché essa ha coinvolto tutto l’apparato industriale moderno, ma anche perché ha coinvolto totalmente quello psicologico, sia nel singolo sia nella società. Avendo pervaso radicalmente la coscienza collettiva attraverso i mezzi di informazione, ha compiuto un salto di qualità. La mente collettiva non è più semplice somma di quelle individuali: possiede uno stato di esaltazione autonomo, che retroagisce sui singoli. I partecipanti sono tenuti in una mobilitazione totale e continua, fatti simili agli antichi combattenti posseduti dalle Furie, la guerra e la propaganda dell’odio semplificano. Permettono la regressione, l’annullamento della responsabilità individuale nel branco».
[7] Aldo Sabino Giannuli, Come funzionano i servizi segreti, Ed. Ponte alle Grazie, 2009, pg. 33: «…in trincea, ma anche nelle fabbriche produttrici di armi o di equipaggiamento, nella sottoscrizione dei prestiti di guerra, ecc.»
[8] Luigi Zoja, 2011, pg. 87.
[9] Ibidem, pg. 58.
Dizionario Treccani, populismo: [po-pu-lì-smo] s.m.
1. Atteggiamento o movimento politico tendente a esaltare il ruolo e i valori delle classi popolari;
2. Spregiativo: Atteggiamento demagogico volto ad assecondare le aspettative del popolo, indipendentemente da ogni valutazione del loro contenuto, della loro opportunità;
3. Movimento rivoluzionario russo della fine del sec. XIX, che propugnava l’emancipazione delle classi contadine e dei servi della gleba attraverso la realizzazione di una sorta di socialismo rurale.
4. In ambito artistico, raffigurazione idealizzata del popolo, presentato come modello etico positivo.
[10] Gustav Le Bon, La psicologia delle folle, pg. 33: «Conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governarle».
[11] Aldo Sabino Giannuli, 2009, pg. 33.
[12] Il Committee on Public Information (CPI).
[13] Howard Zinn, 2010, pp. 250-251: «Nel 1914 aveva avuto inizio negli Stati Uniti una grave recessione. Già nel 1915, però, le commesse di guerra degli Alleati (soprattutto dell’Inghilterra) stimolavano l’economia; nell’aprile 1917 erano state vendute agli Alleati forniture per un valore che superava i 2 miliardi di dollari. La J.P. Morgan and Company agiva da intermediaria per gli Alleati e cominciò a prestare denaro in quantità tali non solo da ricavarne ingenti profitti, ma da legare strettamente le sorti della finanza americana ad una vittoria britannica contro la Germania… Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, i ricchi presero il controllo dell’economia in modo ancor più diretto. Il finanziere Bernard Baruch presiedeva il consiglio delle industrie belliche, la più potente agenzia governativa in tempo di guerra; questi organismi erano dominati da banchieri, padroni di compagnie ferroviarie, industriali».
[14] Ibidem, pp. 252-253: «George Creel, un giornalista con molta esperienza, divenne propagandista di guerra ufficiale del governo; creò la Commissione per l’informazione pubblica allo scopo di persuadere gli americani che la guerra era giusta. La commissione finanziò 75.000 conferenzieri che tennero 750.000 discorsi della durata di quattro minuti in 5000 comuni americani. Lo sforzo intrapreso per stimolare una popolazione poco convinta fu imponente. Il giorno dopo la dichiarazione di guerra del Congresso, il partito socialista si riunì in un convegno straordinario a San Louis e bollò la dichiarazione come un crimine contro il popolo degli Stati Uniti. Nel giugno 1917 il Congresso approvò, e Wilson firmò, lo Espionage Act. Il nome farebbe pensare ad una legge contro lo spionaggio, ma conteneva un articolo che prevedeva una condanna sino a vent’anni di carcere per “chiunque, mentre gli Stati Uniti sono in guerra, provochi o tenti di provocare l’insubordinazione, l’infedeltà, l’ammutinamento o il rifiuto del servizio nelle forze militari o navali degli Stati Uniti, oppure ostacoli volontariamente il servizio di reclutamento e arruolamento degli Stati Uniti”. La legge fu utilizzata per incarcerare americani che si esprimevano a voce o per iscritto contro la guerra».
[15] Ibidem, 2010, pg. 252.
[16] Ibidem Howard Zinn, A Young People’s History of the United States, 2007, Seven Stories Press, trad. it. Vi racconto l’America, alla scoperta del nuovo mondo, Marco Tropea editore, settembre 2008 pp. 114-115: «Nel 1915 un sommergibile tedesco aveva colpito e affondato un transatlantico inglese, il Lusitania, in viaggio dall’America settentrionale all’Inghilterra. Morirono circa 1200 persone, tra cui 124 americani. Gli Stati Uniti sostennero che il Lusitania trasportava passeggeri civili e un carico innocuo, e che l’attacco tedesco era stato una mostruosa atrocità. In realtà la nave era pesantemente armata e trasportava migliaia di casse di munizioni per gli inglesi. I documenti di bordo vennero falsificati, e il governo americano e quello inglese mentirono a proposito del carico. Poi, nell’aprile 1917, i tedeschi avvisarono che i loro sommergibili avrebbero affondato qualunque bastimento che trasportava rifornimenti per il nemico, includendo nella minaccia gli Stati Uniti, che avevano rifornito gli Alleati di enormi quantità di materiale bellico. La guerra in Europa era stato un evento positivo per le finanze degli Stati Uniti. Nel 1914, infatti, il paese era stato colpito da una grave crisi economica, ma la situazione cambiò quando gli americani cominciarono a produrre materiale bellico da vendere agli Alleati, principalmente agli inglesi. All’epoca dell’avvertimento tedesco contro il traffico navale, gli Stati Uniti avevano venduto agli alleati merci per un valore di 2 miliardi di dollari. Ormai la ricchezza americana era legata alla guerra inglese. Il presidente Wilson affermò che era suo dovere difendere il diritto degli americani di viaggiare su navi mercantili nelle zone interessate dal conflitto, e il Congresso dichiarò guerra alla Germania».
[17] Tra cui: Gli artigli dell’unno; Il delinquente prussiano; All’inferno con il Kaiser; Il Kaiser: la belva di Berlino; ecc.
[18] Antonella Randazzo, Dittature. La storia occultata, Il Nuovo Mondo edizioni, 2007, pg. 90.
[19] Le Bon, Psicologia delle folle, pg. 57.
[20] Michael Sayers e Albert E. Kahn, The Great Conspiracy, Boni and Gaer, New York, trad. italiana, La grande congiura, Giulio Einaudi Editore, 1948, pg. 72: «Il bolscevismo – disse Herbert Hoover, futuro presidente degli Stati Uniti – è peggiore della guerra».
[21] Ibidem, pg. 36: «Al Congresso erano chiamati “quelle bestie dannate”».
[22] La proposta viene resa nota da Wilson l’8 gennaio 1918 durante un discorso al Congresso.
[23] Freikorps: organizzazione paramilitare di estrema destra finanziata dalla loggia Thule.
[24] John Maynard Keynes nel suo libro, Le conseguenze economiche della pace, ed. Rosenberg & Sellier, 1983, ci descrive così i tre uomini più influenti presenti a Versailles: «Il Presidente (Wilson n.d.r.): un uomo di generose intenzioni, con molte debolezze comuni agli altri uomini e privo di quelle doti intellettuali dominatrici che sarebbero state necessarie per tener fronte, lì, faccia a faccia nel Consiglio, ai sottili e pericolosi incantatori… (pg. 47); Lloyd George: accanto a lui si avverte quel profumo di assoluta amoralità, di irresponsabilità interiore, di esistenza estranea o distaccata dal bene e male di noi sassoni, misto ad astuzia, mancanza di rimorsi, sete di potere… (pg. 206); Clemenceau: troppo cinico… Il trattato di pace nacque dalle loro disparità e debolezze…senza nobiltà, senza moralità, senza intelletto» (pg. 208).
[25] Ibidem, pg. 15.
[26] Il Trattato di Pace con la Germania, Prima traduzione italiana sul testo definitivo, Editore Quintieri, Milano, 1919, pg. 49, art. 231: «La Germania riconosce che essa e i suoi alleati sono responsabili per aver causato tutti i danni subìti dai Governi Alleati e associati e dai loro cittadini a seguito della guerra che a loro è stata imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati».
[27] Luigi Zoja, Coltivare l’anima, Moretti & Vitali, Bergamo, 1999, pg. 34: «Ciò di cui non si tenne conto è che, mentre le riparazioni di guerra possono essere più o meno sopportabili, ma mettono mano solo alle tasche degli interessati, l’attribuzione di una grande colpa è un evento profondo e rivoluzionario per la psiche, che richiede la conversione del soggetto a questa interpretazione o, come avvenne, il suo rigetto paranoico. Per questa via il primo dopoguerra attivò il complesso demoniaco anche più della guerra stessa, sfociando senza interruzioni nel secondo conflitto mondiale».
[28] Zoja, 2011, pg. 176: «Anche il testo di Keynes cita un problema d’onore (con parole più nostre: un problema psicologico di autostima collettiva), mettendo in guardia sui malintesi che avrebbero poi condotto al secondo conflitto mondiale».
[29] Marx Weber, Politik als Beruf, in Id., Politik als Beruf – Wissenschaft als Beruf, Duncker & Humblot, München, 1919, pp. 105-106, (trad. it. La politica come professione, in Id., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948).
[30] Il Trattato di Pace con la Germania, 1919, pg. 49-50: Parte Ottava, Riparazioni, Capitolo I, Disposizioni generali, art. 232.
[31] Ibidem, art. 240 del Trattato, pg. 51
[32] Ibidem, Allegato II, paragrafo VIII, pg. 53.
[33] Ibidem, Allegato II, Paragrafo XII, pg. 53: «La Commissione avrà, in linea generale, il potere di controllo ed esecutivo più ampio in ciò che riguarda il problema delle riparazioni, quale è trattato nella presente parte, ed avrà facoltà di interpretare le disposizioni». Paragrafo XIV, pg. 55: «Le decisioni prese dalla Commissione in conformità dei poteri che le sono conferiti saranno immediatamente esecutive e potranno ricevere immediata applicazione senza altre formalità».
[34] Ibidem, pg. 53, Paragrafo XI. «La Commissione non sarà vincolata da alcuna legislazione né da alcun codice particolare concernente l’istruttoria o la procedura…».
[35] Keynes, 1920, pg. 146. Cfr. Zoja, 2011, pg. 175.
[36] Thorstein Veblen, Political Science Quarterly, Vol. XXXV, 1920. Cfr. Keynes, 1983, pg. 12.
[37] Keynes, 1983, pg. 160.
[38] Ibidem, pp. 199 – 200.
[39] Ibidem, pg. 184.
[40] Zoja, 2011, pg. 187.
[41] Keynes, 1983, pg. 19.
[42] Luigi Zoja, 2011, pg 187: «Ucciso il drago, l’eroe del ciclo dei Nibelunghi era diventato invincibile quando era stato bagnato nel sangue del mostro, come Achille nelle acque dello Stige. Ma, come Achille era rimasto vulnerabile nel tallone che la madre non aveva immerso nel fiume, così una piccola parte del corpo di Sigfrido era rimasta fuori dal bagno miracoloso: un punto della schiena, su cui si era posata una foglia. La sposa Cremilde lo sapeva e aveva incaricato Hagen, l’amico fedele dell’eroe, di proteggergli le spalle. Ma il mito non è una storia hollywoodiana che garantisca lo happy end. Hagen, segretamente innamorato di Cremilde, immerse la sua lama proprio dove la morte poteva entrare in Sigfrido».
[43] La teoria di tale complotto vuole la massoneria, il comunismo, il marxismo ed il bolscevismo come correnti di pensiero create e diffuse dalla lobby ebraica mondiale allo scopo di dominare il mondo. Un forte contributo alla diffusione di tale teoria venne data dalla pubblicazione in Russia, nel 1903, dei Protocolli dei Savi di Sion, un documento confezionato dall’Okhrana (la polizia segreta zarista), in cui vengono descritti i passaggi della cospirazione ebraica per impadronirsi del mondo. Tradotti in tedesco per la prima volta da Gottfried zur Beek nel 1919, sono stati nuovamente rieditati nel 1923 dall’ideologo del partito nazionalsocialista Alfred Rosenberg (Die Protokolle der Weisen von Zion und die judische Weltpolitik).
[44] Utilizzati da Hitler per la sua feroce propaganda (Adolf Hitler, Mein Kampf, vol. I, pp. 307-308) divengono addirittura una lettura obbligatoria per gli studenti tedeschi.
[45] Keynes, 1983, pg. 18.
[46] Ibidem, pg. 18.
[47] Adolf Hitler, Mein Kampf, Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1977, pg. 293.
[48] Keynes, 1983, pp. 30-31.
[49] Stefan Zweg, Die Welt von Gestern. Erinnerungen eines Europaers, William Verlag AG, trad. it. Il mondo di ieri. I ricordi di un europeo, Mondadori, 2012.
[50] Zoja, 2011, p. 179.
[51] Keynes, 1983, pg. 15.
[52] Il «liberismo selvaggio», acuendo povertà e disoccupazione, portò ad una calo di consumi – e conseguentemente di produzioni – che determinò il fallimento di industrie e piccole banche, mentre i grandi istituti finanziari poterono acquistare a poco prezzo numerosi beni.
[53] Luigi Zoja, Giustizia e bellezza, Bollati Boringhieri, 2007: «La massa ha accesso a una sovrabbondanza di beni di consumo quotidiano… ma non ha quasi più accesso alla bellezza (pg. 37)… Proprio per la sua inerente, grandiosa inesauribilità, la bellezza è capace di insegnarci che è inutile essere avari e smaniosi di accumulare piccolezze. L’immobilità serena che scaturisce dalla nostra meraviglia è la miglior medicina contro l’aggressività pedante, contro la competizione invidiosa, contro l’avidità ansiosa che ci fa obesi, quasi sempre psicologicamente e talvolta anche fisicamente (pg. 47)… gli edifici moderni si sono fatti prevalentemente brutti, e particolarmente costosi anche in rapporto a questa bruttezza. Qualcosa di simile si può dire del nostro abbigliamento (pg. 57) … Nessuna vera società può fare a meno di una autentica educazione al bello … violenza e diseducazione possono dar prova di essere un costo insuperabile nella costruzione di una nuova società (pp. 81-82)… quello che le pubblicazioni patinate, gli hotel esclusivi, i circoli esclusivi, la moda esclusiva, persino i mercati d’arte esclusivi propongono, non è necessariamente il bello, quanto il lusso: cioè una perversione. Si è dimenticato che lusso da sempre ha significato «patologia»: qualcosa di deviato. Il latino luxus vuol dire «fuori posto», la stessa parola significava sia lusso che lussato… la bellezza si radicava in gran parte nella piazza: gustarla richiedeva condivisione. Il lusso è, appunto, esclusivo: gustarlo significa suscitare invidia, escludere gli altri (pp. 87-88)».
[54] J. M. Keynes, Autosufficienza nazionale (1933) in ID, La fine del laissez-faire e altri scritti, cit. pg. 95 e 97.
[55] Semelin, 2007, pg. 21: «I discorsi ideologici tendono a sfruttare a loro vantaggio il trauma della sconfitta proponendo un racconto che salva l’onore del paese e gli dona nuovo slancio».
[56] Semelin, 2007, pg. 74.
[57] Ibidem, pg. 40.
[58] Corriere della sera, 13 novembre 2012, di Marco Galluzzo, Ricerca della Banca d’Italia: Gli immigrati non tolgono lavoro agli italiani: «Primo: gli immigrati non tolgono lavoro, portano anzi dei benefici al mercato del lavoro che li accoglie. Secondo: gli effetti positivi per i lavoratori «nazionali», sono anche in termini di busta paga. Terzo: consistenti flussi migratori hanno l’effetto di spostare i lavoratori «nazionali» verso occupazioni più specializzate e migliori. Francesco D’Amuri, ricercatore di Bankitalia, e Giovanni Peri, dell’University of California, in un working paper appena pubblicato sul sito della nostra banca centrale, sfatano alcuni luoghi comuni». Il rapporto integrale è scaricabile all’indirizzo: http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/temidi/td12/td886_12/td886/en_tema_886.pd
[59] Zoja, 2004 pg. 24.
[60] Zoja, 2011, pg. 13.
[61] Ibidem, pg. 150. Il leader paranoico, pg. 28: «…dispone normalmente di intelligenza e senso critico. Può fare anche satira. Ma poiché suo male d’origine è la mancanza di autostima, la sua critica è a senso unico, non flessibile. Può curvare verso il sarcasmo e, più in là, verso l’odio; ma non in direzione di autoironia perché, criticandosi, teme di distruggersi. Non può rivedere le proprie posizioni perché cadrebbe nel niente. Per questo è incapace di perdono: ciò comporterebbe la libertà, ed egli non l’accetta né per gli altri, né per se stesso».
[62] Denis-Constant Martin, Cartes d’identité. Comment dit-on “nous” en politique?, Press de la Fnsp, Paris 1994, pp.31-32: «Il racconto identitario consente nelle situazioni moderne di sconvolgimenti e di rapidi mutamenti, tanto materiali quanto morali, di dare voce all’ansia e, allo stesso tempo, di attenuarla restituendo senso, grazie ai riferimenti famigliari – storici, territoriali, culturali o religiosi – a ciò che sembra non averne più».
[63] Zoja, 2011, pg. 28.
[64] Semelin, 2007, pg. 12.
[65] Semelin, 2007, pg. 46: «Noi tutti siamo portati a cercare di conoscere le cause di ciò che ispira paura. Si crede che la conoscenza di queste cause fornirà i mezzi per dominarla, se non per eliminarla… una risposta consiste nel non mettersi in causa né come gruppo, né come singoli, meglio dire se tutto va male non è causa mia, è causa Loro. Ora si è salvi, non ci si deve più mettere in discussione, ora l’angoscia è trasferita su Loro e li si comincia ad odiare, perché più è forte l’odio, meno forte è la paura».
[66] Zoja, 2011, pg. 36: «Il ragionamento paranoico può contenere anche molti elementi di verità. Ma esso mente essenzialmente sulla natura umana, perché nega all’avversario la qualità di uomo, allo scopo di ridurlo a colpevole. Non vuole sapere altro».
[67] J.Semelin, 2007.
[68] Ibidem, pg. 43: «I nazisti parlano degli ebrei come volgari ratti» o pulci» o parassiti sociali», gli hutu estremisti trattano gli invasori tutsi come «scarafaggi» o «blatte». Sono insetti che suscitano repulsione e viene voglia di schiacciarli. Per Lenin si doveva epurare la terra russa dai suoi “insetti dannosi”, o i “pidocchi” avranno la meglio sul socialismo… i “parassiti” sono i principali nemici del socialismo… ripulire le città russe da quei “vermi” che sono le Guardie bianche, Pol Pot parla dei nemici come “vermi” venuti dalla Cina, dal Vietnam per minare il sano popolo rivoluzionario».
[69] Ibidem, pg. 80.
[70] Francesco Cossiga, 2010, pp. 140-141.
[71] Michel Aglietta 2001, pg. 50: «Il malessere si insinua nelle psicologie individuali quando l’energia che era valorizzata nel lavoro si converte in angoscia nel futuro che non è più leggibile. Questa crisi profonda dell’appartenenza comporta la frammentazione delle ineguaglianze che non sono più ordinate da norme comuni e da rivendicazioni i collettive di cui si possa tener conto nel dibattito politico. Essa provoca anche un declino generale della solidarietà. Ne deriva una perdita di legittimità dei sindacati e dei partiti politici che non riescono più a formulare rappresentazioni del legame sociale in cui si possano accogliere conflitti e negoziare compromessi … la frammentazione delle ineguaglianze penetra tutte le categorie socio professionali. Né la qualifica, né l’anzianità di lavoro, né la responsabilità gerarchica sono più criteri che assegnino posizioni riconosciute nelle organizzazioni. I destini individuali diventano eterogenei a seconda delle mutazioni imprevedibili che piombano l’uno nella disoccupazione, l’altro nella precarietà, l’altro ancora nel lavoro sotto qualificato».
[72] Doppiozero, 2011, Marco Belpoliti intervista Umberto Eco: “La costruzione del nemico”, in http://www.youtube.com/watch?v=03MKLw5VGvM
[73] Generale Fabio Mini, nato a Manfredonia l’11 dicembre 1942, dopo gli studi presso l’Accademia militare di Modena e la Scuola di Applicazione di Torino, si è laureato in Scienze strategiche per poi perfezionarsi in scienze umanistiche presso l’Università Lateranense e in Negoziato internazionale presso l’Università di Trieste. Tra i vari incarichi è stato portavoce del capo di Stato maggiore dell’Esercito italiano e, dal 1993 al 1996, ha svolto la funzione di addetto militare a Pechino. Ha inoltre diretto l’Istituto superiore di stato maggiore interforze (ISSMI). Generale di corpo d’armata, è stato capo di Stato maggiore del Comando NATO per il Sud Europa e a partire dal gennaio 2001 ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante delle operazioni di pace in Kosovo a guida NATO, nell’ambito della missione KFOR.
[74] J. Glenn Gray, The Warrior. Riflection on Men in Battle, Harper & Row, New York, 1970, pg. XII: «Lei sa che non amo la guerra e mai vorrei che si ripresentasse. Ma se non altro mi faceva sentire viva, viva come non mi ero mai sentita prima e come non mi sono più sentita dopo».
[75] Fabio Mini, 2012, pp. 39 – 40.
[76] Cit. in Niall Ferguson, The Pity of War, Basic Books, New York, 1999, cap. 7, Cfr. Zoja, 2011, pg. 145.
[77] Stralci di due discorsi pronunciati da Winston Churchill alla Camera dei Comuni nel 1940.
[78] Fabio Mini, 2012.
[79] Sonke Neitzel Harald Welzer, Soldaten, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main, 2011, trad. it. Soldaten, Garzanti, 2012, Milano Welzer, Tater, pp. 132 ss.: «In situazioni sociali e culturali che la fanno apparire come sensata, alla violenza ricorrono tutti: uomini e donne, persone colte o ignoranti, cattolici, protestanti musulmani… al più tardi, al secondo allarme nel bunker, anche il più grande filantropo comincia provare un desiderio di vendetta… Perché una persona decida di ucciderne un’altra, basta che si senta minacciata nella sua esistenza, che si senta autorizzata a farlo o che attribuisca al proprio atto un significato politico, culturale e religioso… Attorno alle fosse comuni, come in un’arena, si raccoglieva un pubblico di spettatori abituali: gente del posto, soldati della Wehrmacht, impiegati dell’amministrazione civile. Le fucilazioni diventavano così spettacoli, una vera e propria forma di intrattenimento, anche se non erano espressamente pensate come tali… le persone si recavano regolarmente nei luoghi delle fucilazioni, facevano fotografie e probabilmente si divertivano ad assistere allo spettacolo, a vedere persone inermi nude, in particolare le donne, a dare consigli ai soldati e ad incitarli».
[80] Semelin, 2009, pg. 98.
[81] Lettera di un soldato americano in Vietnam, a cura di Bille Adler, Letters from de front 1898-1945, State Historical of Winsconsin, Madison 1992, p. 110.
[82] SRX 2080, 7.1.1945, TNA, WO 208/4164, Tenente Hans Harting della squadriglia caccia 26.
[83] SRA 177, 17.7.1940, TNA, WO 208/4118, Tenente della Luftwaffe.
[84] Gerald Linderman, The World Within War. America’s Combat Experience in World War II, Free Press, New York, 1997, pg. 242.
[85] Zoja, 2011, «Dentro di noi, dobbiamo continuare a dire no al sospetto e all’allusione. Perché la loro è la vera, l’unica tentazione che rinasce sempre. È il male che attraversa ognuno di noi e l’insieme della storia. Lui, continuerà ogni giorno a tentarci. Noi, dobbiamo dire di no a Iago».
[86] Simone Weil, 1957, Note sur la suppression générale des parties politique, n. ed. Climat, Flammarion 2009 (trad. it. La polita come confessione, in Id., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1948), pg. 28, in Zoja, 2011, pg. 41.
[87] Barbara Tuchman, The March of Folly. From Troy to Vietnam, Ballantine, New York, 1985, trad. it. La marcia della follia. Dal cavallo di Troia alla guerra del Vietnam, Mondadori, Milano, 1985.
[88] Zoja, 2004, pg. 188.
[89] Zoja, 2011.
[90] Qiao Liang, Wang Xiangsui, 2010, pg. 224.

 

 

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