Che responsabilità ha un musicista verso l’ascoltatore?

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Che responsabilità ha un musicista verso l’ascoltatore?

di Giorgio Carotenuto

Nei secoli, la nostra idea di musica, di espressione artistica è notevolmente cambiata: in tempi antichi, un artista metteva da parte il suo nome a favore della funzione sociale e spirituale della musica che esso produceva. Studiava per capire come meglio distribuire un messaggio che era volto a trasmettere dei valori più alti di lui, atti a trasmettere delle memorie e ad ispirare l’ascoltatore…ad innalzare la qualità del sistema di valori di una popolazione.

La musica veniva dall’alto, attraversava il musicista, che a sua volta la manifestava e la metteva al servizio della società.

Gli Etruschi, ad esempio, consacravano con la musica tutte le attività della giornata: dai lavori quotidiani come l’impasto del pane, ad eventi ludici, militari, religiosi. Per ogni attività venivano selezionati i giusti strumenti, le melodie e i ritmi più adatti, così da impregnarle della giusta intenzione, del miglior spirito.

Adesso è il messaggio personale del musicista/compositore a dettare il contenuto emotivo e testuale di un brano.

Da una parte questo è un ottimo segno – è sintomo di una cultura che sta ponendo una maggiore enfasi sull’individuo. Ma come ci siamo arrivati e che forma ha, in questo momento?

 

La figura del musicista ha gradualmente scoperto la propria libertà nel poter rompere la “gabbia” delle vecchie convenzioni musicali, che ne dettavano l’esito emotivo e morale attraverso regole compositive ben delineate. 

Ed è spesso stato grazie ad uno sforzo dell’intelletto che queste regole sono state infrante, laddove la nostra anima, la nostra emotività, il nostro cuore, lo riteneva un lavoro faticoso, dissonante, a volte perturbante.

Attraverso il tempo e lo sviluppo di vari stili musicali, questa dissonanza è stata ripetutamente sviscerata e condivisa, spesso in modo impattante, mettendo in evidenza i nostri aspetti interiori più oscuri. Un lavoro che in parte ha avuto dei risultati positivi, tra cui la voglia di ribellarsi a schemi sociali e politici preesistenti e non più adatti ai tempi, la voglia di voler smascherare i nostri sentimenti più discordanti, la voglia di conoscere meglio quell’ombra che alberga in ognuno di noi. Nell’ultimo secolo si può dire infatti che la cultura del “trauma”, dell’inaspettato e dissonante impatto emotivo, sia stata utilizzata nel costante tentativo di spezzare vecchi ideali per introdurne dei nuovi: religiosi, sociali, politici, nella moda, nell’arte, e così via.

E questo lavoro ha sì man mano permesso alle persone di aprirsi alla possibilità di conoscere meglio le proprie ombre…ma anche di abituarsi sempre di più al “trauma” come forma di trasmissione di un messaggio e alla ricezione di queste ombre come suo contenuto.

Un esempio famoso di questo meccanismo fu la prima del balletto “La Sagra Della Primavera”, il 29 maggio  1913 al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi. Qui, il compositore Igor’ Stravinskij sottopose per la prima volta la musica che aveva composto per questo tema – in una narrativa che, piuttosto che enfatizzare la bellezza della primavera (come era successo in passato) andava a descrivere un rituale pagano, il sacrificio di una vergine. Durante la dissonante esecuzione, il pubblico (sconvolto dalla controversa proposta) esplose, senza apparente spiegazione, in una delle più famose risse nella storia della musica.
L’anno dopo, lo stesso balletto venne riproposto, riscuotendo un enorme successo.

Questo approccio “traumatico” si è sempre più diffuso nel corso dei decenni in ogni stile musicale.

Difatti, l’utilizzo di un trauma allo scopo di introdurre nuovi elementi è una tecnica antichissima, da sempre usata sia da scuole iniziatiche bianche (ad esempio, nella lieve e calcolatissima asimmetria di una chiesa romanico-gotica) sia da gruppi oscuri (come nell’inaugurazione nel 2016 del tunnel di base del San Gottardo), allo scopo di alleviare o di complicare, in base all’intenzione, la condizione psichica ed emotiva in un individuo, di un gruppo di persone o di una popolazione intera.

Una tecnica che negli ultimi tempi ci è stata messa in mano, presente oramai in ogni forma d’arte, ma anche nelle correnti new age e di self-help, come ad esempio nella PNL.

crowleybowieUna tecnica che ci viene distribuita senza però avere gli strumenti per utilizzarla responsabilmente.
Questo è l’effetto che, ad esempio, l’ispirazione Crowleyana del “Fai Ciò Che Vuoi” ha aiutato ad alimentare: se da una parte l’artista si sente libero di concepire e produrre la propria arte  come vuole, dall’altra si sentirà deresponsabilizzato, ignorando in buona parte gli effetti profondi che il proprio messaggio può avere su chi lo riceve.

Una tecnica dalla quale ormai la nostra cultura dipende troppo – un musicista ha spesso paura di essere poco rilevante nel momento in cui non trova quel qualcosa di nuovo che può “sconvolgere”. E, purtroppo, ultimamente questo sconvolgimento viene quasi sempre accompagnato da un messaggio negativo, dissonante, con il solo scopo di voler sviscerare necessariamente qualcosa di oscuro da poter condividere, come se quella fosse la verità che alberga in noi…. spesso non sapendo perché o come questa parte oscura di noi funziona veramente, ma magari basandosi semplicemente sul fatto che è ciò che l’artista prova, e che l’andamento culturale è comunque questo. Accade ora come non mai, nell’arte, nella musica, nel teatro, nella letteratura e nella spiritualità.

Più passano gli anni e più ci accorgeremo come questa sia la nostra nuova gabbia, non tanto diversa da quella che abbiamo sempre cercato di rompere. Se non saremo disposti ad andare oltre, a dare un nuovo contesto positivo a quell’elemento negativo che c’è in ognuno di noi (invece di “glorificarlo” solamente), finiremo semplicemente per ingrossarlo.  Permettendogli di invilupparci e di distorcere ulteriormente la nostra visione del mondo, invece di renderla chiara.

Sarà importante quindi, per ogni artista, non necessariamente allontanarsi dal lavoro fatto fino ad ora, ma comprendere come il male in ognuno di noi si manifesta e che effetti la sua condivisione può provocare…a cosa realmente serve il “male”, in un contesto che ha a cuore l’evoluzione umana. A come lo possiamo riconoscere per non dargli spago, per non essere più vittime dei suoi effetti…o per capire come esso ci può rendere più forti, trasformandone per reazione le sfide in forze interiori positive.

Soffermarsi sul male in un messaggio artistico è come porre un crocifisso nell’aula di una scuola: al posto di un messaggio che ci ricorda la nostra capacità di risorgere, ne troviamo uno che si ferma prima, portando la nostra attenzione su elementi come la sofferenza e la colpa, ponendoli come punti di arrivo.

Cercare di rompere la nostra gabbia continua dunque ad essere un lavoro centrale per la nostra cultura. Ma non può più essere il mero intelletto ad infrangere le vecchie regole.

Finché l’artista continuerà a produrre soprattutto per il bene proprio, si troverà inevitabilmente costretto a scavare nelle proprie ombre. E non farà altro che elargirle.
Sarà invece il nostro cuore, la nostra voglia di bene per gli altri (anche partendo da chi ci è accanto), a darci una maggiore libertà creativa ed espressiva, a donare all’arte nuova linfa, a portare al mondo innovative forme di ispirazione, più alte ed ampie di quanto possiamo al momento immaginare.

1913 al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi

 

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